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“Davanti a un quadro di assoluta armonia come quello composto dai nostri elegantissimi fenomeni in posa con il premio del secolo, un quadro che si apprezza ancora di più allontanandosi di qualche passo dalla tela, viene in mente un aforisma vagamente paradossale di Karl Kraus, pensato e scritto a proposito di chissà quale donna: «Per essere perfetta le mancava solo un difetto». Beh, la squadra più forte della storia del volley ha conosciuto – e per due volte! – l’asprissimo, insopportabile, irresistibile sapore della sconfitta. È per questo che siamo stati la squadra perfetta”.
È il 4 ottobre 2001 e, sul palco dell’Alvear Palace Hotel di Buenos Aires, Fernando De La Rua, presidente della Repubblica argentina, incorona la squadra di pallavolo più forte di tutti i tempi: l’Italia di Julio Velasco.
Con questa immagine Giuseppe Pastore, uno dei migliori giornalisti sportivi contemporanei, chiude l’entusiasmante racconto de “La squadra che sogna”, la storia della nazionale montata, forgiata e consegnata alla leggenda dal comandante venuto da La Plata. Una narrazione sportiva che abbraccia tutti i settori dell’Italia di fine anni ’80 e della prima metà degli anni ’90, una successione di eventi armonizzata dal fluente (e sapiente) stile dell’autore che alterna citazioni di giganti della letteratura, sportiva e non, ad analisi profonde, senza tradire la veridicità e le tempistiche della cronaca pura.
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Il segreto, probabilmente, è che tale cronaca contiene già di per sé caratteri magici. È lo sviluppo, tappa dopo tappa, del percorso di selezioni vincenti e talentuose, determinate ma anche fragili, il cui lato umano diviene preda, talvolta volontariamente, della gestione a 360 gradi del maestro. Velasco svolge tanti ruoli tutti insieme: è selezionatore, è allenatore (uno dei pochi nella storia dello sport a far passare quasi in secondo piano il campionato per concentrarsi sulla preparazione ad un grande torneo per nazionali), è insegnante, è capo ma è pure papà. Perché l’Italia che porta il volley al centro del Paese è un’Italia di uomini e di ragazzi, prima ancora che di atleti. In questo il tecnico argentino (“L’Argentina è la mia mamma, l’Italia è mia moglie”), come si apprezza pagina dopo pagina, è stato un numero 1: nel tirar fuori da ognuno dei suoi “figli” il meglio per un determinato momento di una determinata partita, raggiungendo quasi sempre il massimo risultato.
E poi gli improvvisi viaggi nella cultura dei nostri avversari, odiati rivali durante i match (e a volte anche prima…e dopo) quanto affascinanti portavoce di mondi lontani che il confronto sportivo avvicina come null’altro. Come il 27 ottobre 1990, quando al Maracanazinho di Rio de Janeiro l’Italia è costretta a cercare contromisure al “viagem ao fundo do mar”, la battuta al salto dei brasiliani, introdotta dal ct Bebeto 6 anni prima a Los Angeles, che mise al tappeto gli Stati Uniti. Una gara, quella del “piccolo Maracanà”, disputata nel delirio sintetizzato da un enorme striscione sugli spalti: “VEM PRA TORCIDA VOCE TAMBEM”, “Venite anche voi nella torcida”.
È grazie alla personalità di Velasco e al temperamento degli atleti sul rettangolo di gioco che la squadra di pallavolo più forte di tutti i tempi riesce a trovare soluzioni anche nelle più ardue delle situazioni, scavando nella propria anima e scavando spesso anche nella panchina. Tutti importanti, nessuno indispensabile: il generale sudamericano cuce un ruolo più o meno preciso addosso a tutti i suoi interpreti, ma non capita di rado che diventi protagonista colui che in partenza era l’ultima delle comparse.
Storia, agonismo, vite private. Ne “La squadra che sogna” c’è tutto, un tutto messo in ordine dalla saggezza di Julio Velasco e scandito dalla penna di Giuseppe Pastore. Perché in fondo, che vi piaccia o no, è anche lo sport a determinare ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò che saremo.
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