La stagione del football americano si è conclusa con il Super Bowl 50, che ha visto trionfare i Denver Broncos di Peyton Manning per 24-10 sui Carolina Panthers di Cam Newton. Ma di Nfl, della sua bellezza, spettacolarità, della sua forza e delle sue debolezze, abbiamo voluto parlare con Roberto Gotta, ex giocatore di Serie A e oggi telecronista di football, baseball e college basket su Sky Sport e Fox Sports. In questa intervista esclusiva per Sportface.it, Gotta racconta e si racconta, dopo 19 anni di Super Bowl visti e commentati dal vivo.
Partiamo dalla fine, dal Superbowl 50 e le tue impressioni. Alla fine il detto ‘l’attacco vende i biglietti, la difesa le partite’ non si smentisce quasi mai…
“È vero, la difesa spesso decide le partite, e da ex difensore (scarso) tifo sempre per le difese, ma le situazioni tattiche sono spesso indecifrabili. Se si guarda indietro, il Super Bowl quasi sempre viene vinto dalla squadra che ha il quarterback migliore, a parità di altri parametri. Parità significa se le difese sono più o meno equivalenti. Se non lo sono, perlomeno nel giorno della partita, va a finire che anche la presenza di un quarterback di grande valore viene annullata. Cam Newton nel 2015 è stato di gran lunga migliore di Peyton Manning, ma al Super Bowl la difesa dei Broncos è stata così superiore agli altri reparti da avere sbilanciato la gara a favore della squadra che aveva, quel giorno, il qb peggiore. Per quanto mi costi dire così di Manning, uno dei miei giocatori preferiti nella storia del football”.
Un pensiero per Peyton Manning, secondo Superbowl a 40 anni, e con due squadre diverse (primo nella storia a riuscirci).
“Ecco, appunto. Da quando seguo lo sport poche volte ho sperato di veder vincere un giocatore – anche in uno sport di squadra – come Manning in questo caso, soprattutto dopo averlo visto crollare nel SB di due anni fa contro Seattle. Il che non toglie ovviamente che avrei apprezzato anche una vittoria di Carolina, in quanto nome “nuovo”. Ma – ovvio – Carolina e Newton hanno tempo, Manning non ce l’aveva più. Anzi, sinceramente pensavo che avrebbe fatto bene a ritirarsi dopo i playoff dello scorso anno. Ha fatto bene a tornare e andarsene ora col secondo trofeo, ma è un ragionamento che si può fare solo a posteriori. Fino al 7 febbraio mattina, anzi pomeriggio, temevo che fosse stata una scelta infelice”.
Una menzione per Thomas Davis di Carolina mi sembra doverosa. Si è rotto 3 volte lo stesso crociato durante la carriera, due settimane fa si è rotto il braccio contro Arizona ma… domenica era in campo…
“Sì, un eroe, per quanto lo possa essere uno sportivo. L’unico timore in questi casi è che la sua voglia di giocare abbia prevalso sulla reale utilità per la squadra”.
Negli ultimi 8 anni hanno vinto 8 squadre diverse. Cosa significa? Che è difficilissimo ripetersi? Che ci sono tante squadre di alto livello?
“Significa tutte le cose che hai detto, infatti. Ed è il bello della NFL o anche della MLB rispetto alla NBA, ad esempio. Su 16 partite ne bastano 2-3 storte per uscire dalla zona playoff, e dunque perdere la possibilità di riconfermarsi; se si va ai playoff, basta una partita storta per uscire. E anche al Super Bowl basta poco: basta vedere quello che è successo lo scorso anno, con quel lancio di Russell Wilson sulla linea delle 1 yard… Onestamente, un campionato esaltante. E come te – lo intuisco – anche io adoro l’alternanza e detesto cordialmente le dinastie, che spesso si fondano su – o danno origine – all’arroganza”.
Come sempre la città ospitante, in questo caso Santa Clara, durante tutta la settimana si trasforma. Ci racconti una chicca di questa settimana e l’episodio più divertente successo in questi giorni?
“Sono giorni quasi inenarrabili per il loro ritmo. Per dire: quest’anno ero con un operatore di Fox, Giovanni Cintoli, che era per la prima volta a un Super Bowl (a 24 anni, l’età che curiosamente avevo io la prima volta che ne ho visto uno dal vivo, nel 1988) e mi ha detto che guardando il programma della settimana sarebbe stato impossibile seguire tutti gli eventi, decisamente troppi. Il mio apporto è stato quello, avendo esperienza di 19 edizioni, di sapergli indicare quali eventi era utile seguire per girare immagini e raccogliere interviste, e quali si potevano tranquillamente lasciar perdere. Avrei ad esempio voluto due parole dal grande Mike Ditka, eroe del football giocato e allenato e del politicamente scorretto, ma sapevo già che il Super Bowl Breakfast, la mattina del sabato, è un inferno, con la presenza di quasi 1000 persone paganti, e abbiamo semplicemente evitato di provarci e perdere solo tempo. Episodio più divertente? Non ce ne sono stati, al massimo quando durante l’unica visita a un negozio proprio Cintoli è sparito, salvo riapparire dal piano di sotto per farmi vedere un selfie che aveva appena scattato con Les Gold, il protagonista di Banco dei Pugni, la trasmissione televisiva su un banco dei pegni di Detroit, ovvero una delle peggiori combinazioni possibili tra attività e luogo in cui si svolge”.
Ah ovviamente le due tifoserie sono state divise dalla polizia, con tessera del tifoso e ingressi separati giusto?
“Certo. E non solo: al ritorno dei Panthers a Charlotte un gruppo di ultras ha chiesto un colloquio con la squadra, “processandola” per la sconfitta. Scherzi a parte, quando si equiparano i due mondi risalta in maniera ancora più drammatica lo stato troglodita del tifo in Italia. Anzi, del tifo organizzato. Il “mio” tifoso è quello che ha a cuore le sorti della propria squadra, va allo stadio da singolo cittadino e non come membro di una congrega, tifa, gioisce, rimane deluso, esulta, e alla fine va a casa e riprende la propria vita senza farsi condizionare da quello che ha visto. Credo che sia così la maggioranza dei tifosi, ma i media – colpevolissimi su molte storture del sistema sportivo – e i club si interessano solo agli ultras e ai vip, che rappresentano una minoranza delle persone potenzialmente interessate ad andare allo stadio. Anche in America contano i vip, ma a parte loro il pubblico viene visto come tutto uguale, senza precedenze date a prevaricatori e violenti. Tu conosci bene lo sport americano: può mai accadere che biglietti e merchandising vengano messi in vendita attraverso tifosi organizzati, come accade in paesi del quinto mondo sportivo come il nostro?”.
Si è giocato a Santa Clara, nello Stadio nuovo dei San Francisco 49ers. Che impressione ti ha fatto? Ci fai una tua top 3 degli stadi dato che li hai visti praticamente tutti?
“A dire la verità me ne mancano ancora una manciata in NFL e MLB, ma davvero pochi. Specifico: per me “vedere” uno stadio significa vederci una partita, non visitarlo quando è vuoto. Solo vedendo una partita si può apprezzare l’impianto in vita, e non dormiente. Quelli che ho visto vuoti – in realtà pochissimi, dato che se sono vuoti evito di visitarli – non li conto nella mia classifica. Levi’s Stadium indubbiamente bello e con l’aria luminosa, c’è colore e percezione di colore dappertutto, e sullo sfondo le colline e montagne della California che tu conosci bene. Sembra California perché… è California. Per me il più bello tra quelli NFL è il Ford Field di Detroit. Struttura moderna ma non esagerata, abbondanza di mattoni, nei corridoi esterni di alcuni settori c’è addirittura una sorta di parquet. Sembra di essere in un condominio, e al piano alto, quello della sala stampa e di alcuni palchi vip, addirittura si rischia l’effetto-salotto: confesso che durante la seconda semifinale del torneo NCAA del 2009, a causa anche della virtuale impossibilità di seguire la partita (distanza dal campo che rendeva arduo distinguere i giocatori, assenza di schermi tv), mi sono trovato una poltrona comoda in un angolo nascosto e mi sono fatto un quarto d’ora di pisolino. La partita l’avrei poi vista in replica in hotel, riuscendo addirittura (!) a distinguere una squadra dall’altra, cosa impossibile dal vivo. È anche per questo che – anche se non fossi uscito da American Superbasket nel gennaio del 2010 – sarei andato alla mia ultima Final Four ad aprile poi avrei mandato altri colleghi magari anche solo entusiasti di essere là, senza la pretesa (!) di vedere la partita: non ha senso assistere a un evento senza di fatto poter vedere il gioco. Anche per questo è vergognoso che la NCAA strombazzi record di pubblico o cose simili: si approfitta della passione della gente confinando migliaia di persone in posti con visibilità quasi nulla. Tornando agli stadi, al secondo posto Lambeau Field e il Cowboys Stadium: nel primo caso “vincono” struttura, colori e dintorni, nel secondo domina l’edificio in sé, completamente diverso da qualsiasi cosa si fosse mai vista prima. Visto da pochi giorni da fuori, in fase di ultimazione, penso che sarà splendido il nuovo stadio dei Minnesota Vikings, come quello degli Atlanta Falcons. Ma se devo essere sincero fatico realmente a fare classifiche. Per me l’emozione di esserci, infinitamente superiore a quella del raccontare, rende bello qualsiasi stadio, anche il decrepito Coliseum, o come diavolo si chiama adesso, di Oakland. Solo una cosa mi dispiace: che ormai anche qui ci siano stadi-fotocopia. A Minneapolis e Atlanta stanno sorgendo stadi su schemi simili, e viene la stessa tristezza che ha preso negli ultimi 15 anni vedendo un processo simile nel calcio: non ci fossero stati i cartelli a bordo campo con il nome della città, di metà delle partite dei Mondiali 2006, 2010 e 2014 non si sarebbe potuto identificare con precisione l’impianto, dato che apparivano tutti uguali.
È’ giustamente considerato forse lo sport più fisico e a tratti violento di tutti, ma molti secondo me sottovalutano la parte tattica, la perfezione che si cerca di raggiungere dietro ogni giocata. Tu che hai visto molti training camp in estate delle squadre ci racconti un po’ come si allenano e come nascono le giocate che vediamo?
“La parte tattica è quella che di più mi ha fatto appassionare al football e che ancora mi tiene lì. Mi piace l’idea di staff che trascorrono giorni e giorni a rilevare tendenze degli avversari e basare su un passo più o meno lungo di un difensore – o un attaccante – la strategia. È l’aspetto che lo sublima, che lo rende scientifico oltre che fisico e che forma la miscela quasi perfetta. Ho visto 4-5 training camp, uno dei quali per un mese nel lontano 1988, e il giudizio è su due fronti, forse tre: la meraviglia nel vedere un’efficienza misurata realmente al secondo, nel senso che i tempi di allenamento vengono scanditi con una precisione militare, per massimizzare il periodo a disposizione; la misura umana della lotta, nel senso che vedi mattina, pomeriggio e sera giocatori che il giorno dopo potresti non vedere più, perché sono stati tagliati, e dunque cerchi di capire, dietro il loro sguardo e atteggiamento, cosa si aspettino; e infine, lo ammetto, ci può anche essere una certa monotonia dopo un po’. Alla decima volta che vedi uomini di linea di difesa colpire il “sacco” e andare alla caccia di un quarterback inesistente puoi essere un pochino stufo della ripetitività. La novità è splendida e vedrei un training camp ogni anno, ma dopo un po’ ti viene voglia di vedere una partita e non più una costante ripetizione di esercizi. In genere la parte più bella è quella in cui i singoli reparti, fino a quel momento separati, si riuniscono per i non numerosi segmenti di azioni di gioco quasi come in partita ma nei quali naturalmente non si possono effettuare placcaggi duri. I quarterback ad esempio indossano una casacca di colore acceso e diverso da quello della maglia, perché nessun difensore, neanche sotto agitazione e stress, possa mai confondersi e magari fargli male. In quelle azioni si riuniscono le istruzioni apprese durante gli esercizi di reparto e il fascino è quello di vedere il puzzle che si compone: il qb non lancia più a un ricevitore da solo, come negli esercizi, ma in una situazione di sette contro sette – skeleton, si chiama – oppure undici contro undici. Torno un attimo all’aspetto umano: nel 1988, quando potei assistere a tutto il camp dei New Orleans Saints a La Crosse, nel Wisconsin, avevo accesso anche ai pasti della squadra, insomma mi ritrovavo in fila in mensa con giocatori, allenatori, giornalisti, e feci la trasferta per una partita di precampionato a Minneapolis sul pullman, accanto a un running back di secondo piano che si giocava il posto in squadra. Non ne ricordo il nome, ma ricordo che dopo pochi giorni fu tagliato e mi sono chiesto varie volte dove sia finito e cosa faccia ora. E tutto solo per averlo visto ricevere alcuni snap in allenamento ed essere stato con lui per quelle 6-7 ore di pullman, in una nottata che oltretutto vide lo scatenarsi di un temporale estivo che male si conciliava col fatto che a La Crosse, al ritorno, dovevo andare in bicicletta a casa della famiglia che mi ospitava”.
Passa molto tempo tra la fine della stagione (gennaio) e l’inizio di quella successiva (luglio coi summer camp e settembre inizio campionato ). Le squadre come gestiscono questa lunga attesa?
“Per i giocatori il periodo migliore, se hanno contratto e non temono per il futuro, è quello dal giorno dopo l’ultima partita a fine aprile circa. Hanno, in genere, soldi e tempo libero ed è in quei mesi o settimane che alcuni di loro spuntano in vacanza anche in Italia, come si nota dai social network. Se sono sicuri di potersi riprendere in fretta – o sono irresponsabili – possono anche lasciarsi andare come alimentazione, ma in numero crescente cercano di comportarsi da professionisti perché la nascita dei periodi di allenamento e raduno fuori stagione ha portato in realtà a un impegno che dura 9 mesi l’anno. Per i coach forse c’è un periodo di riposo tra giugno e luglio prima del training camp, per il resto dell’anno però è un inferno: è capitato spesso di sentire coach vincitori del Super Bowl preoccuparsi perché mentre loro erano impegnati fino ai primi di febbraio i loro colleghi già eliminati, o che ai playoff nemmeno erano arrivati, avevano avuto la possibilità di programmare già la stagione successiva e si erano sostanzialmente messi avanti col lavoro. C’è da preparare il draft e dunque studiare centinaia di giocatori, ipotizzarne l’inserimento, visionare tutte le PROPRIE partite per capire se ci siano tendenze di gioco o filosofiche che gli avversari possano avere sfruttato, insomma un lavoro che non finisce mai. Dai primi di aprile le squadre con nuovo coach hanno il permesso di organizzare piccole sessioni di allenamento, concesse qualche giorno dopo agli altri club, poi ci sono le sessioni subito dopo il draft per l’orientamento dei nuovi giocatori e altri raduni a maggio. Quindi il periodo morto è… per noi appassionati, ma non dura molto per chi in una squadra lavora”.
Charles Woodson, Peyton Manning (forse), Marshawn Lynch, Calvin Johnson. Tantissimi fuoriclasse che si sono ritirati alla fine di questa stagione… ricambio generazionale in vista? O i “vecchietti” Brady, Rodgers e compagnia domineranno ancora per un po’?
“Al di là di fugaci inchieste giornalistiche utili soprattutto a chi le fa, e molto meno a chi le legge o vede, la NFL e le varie leghe sopravvivono a tutto e a tutti. Ci saranno magari generazioni meno brillanti ma lo sport vince sui protagonisti singoli o di gruppo, e passati Brady o Manning o Woodson o Lynch ce ne saranno altri. Il materiale umano è troppo ricco. Semmai, qualcuno si può perdere per strada per via dei pericoli insiti nel giocare a football, pericoli percepiti da sempre anche a pelle ma evidenziati da ricerche negli ultimi anni. La NFL non è stata eccellente nel gestire le pubbliche relazioni su questo argomento doloroso e delicato, che l’ha vista costretta a pagare centinaia di milioni di danni a ex giocatori, e la conseguenza è stata una caduta della reputazione del commissioner Roger Goodell, trattato come un deficiente anche quando come tale non si comportava. Conta anche il fatto che abbia gestito male anche il presunto scandalo Deflategate: i Patriots godono di fortissima, quasi spudorata stampa a favore nella loro zona, molto rilevante ai fini commerciali e geopolitici, e questo ha acuito le critiche a Goodell”.
L’anno prossimo si giocherà una partita di stagione regolare a Londra (come negli ultimi anni) e anche una in Messico. Come sta andando secondo te il processo di “internazionalizzazione” della Nfl?
“Il processo sta andando bene. Purtroppo. Io voglio vedere NFL, MLB, NBA ed NHL in America, la Premier League in Inghilterra e la Liga in Spagna. Non sono per nulla favorevole a queste partite in giro per il mondo. È chiaro che permettono la visione delle partite a chi non può viaggiare, ma vedere dal vivo una partita non è tra i diritti naturali di una persona e queste gare sono uno snaturamento della competizione, oltretutto sgradito ai giocatori, al di là delle dichiarazioni utili solo alla propaganda. Tra l’altro frequentando molto l’Inghilterra noto che l’interesse reale per la NFL è molto inferiore a quello che viene spacciato dalla NFL e dai canali tv che da essa dipendono: normalmente sui giornali si trovano poche righe – o nessuna – su un turno NFL, e anche se mi rendo conto che non sono più i giornali la misura dell’interesse mediatico è comunque significativo che l’apparenza sia così diversa dalla sostanza. Wembley, Twickenham e prossimamente lo stadio del Tottenham si riempiranno e questo dice molto, ma non tutto. Per assurdo, avrebbero più senso le partite MLB a Cuba o nella Repubblica Dominicana: lì la passione per il baseball esiste e anzi sono nazioni che forniscono (controvoglia, nel caso di Cuba) tanti giocatori alla MLB, qui parliamo invece di posti dove il football fa parte di una nicchia. Non mi piace, semplicemente, anche a costo di passare per snob che va a vedersi le partite in loco”.
Ultima domanda, la più importante: a quando il prossimo libro?
“Eh, non so. È crescente la mia delusione per il fatto che a grandi livelli non si nota la differenza tra chi scrive dopo essersi preparato per anni ed avere girato, anche a proprie spese, e chi fa copia-incolla. In vari settori in cui mi sono specializzato vedo che conta più essere giovani e presuntuosi – e trovare interlocutori impreparati e non in grado di cogliere la superficialità della preparazione – che preparati, per cui passa la voglia di scrivere, se non per orgoglio personale. Vediamo”.