E’ finita allo stesso modo delle precedenti finali sui sacri prati dell’All England Club ma lo spettacolo no, quello migliora col passare degli anni. “Come un buon vino italiano” aveva sottolineato con un sorriso Novak Djokovic quando un giornalista gli aveva fatto notare nei giorni scorsi, per l’ennesima volta, i progressi dei tre tenori con l’avanzare dell’età. E quando i calici pregiati sullo stesso campo sono due, allora l’unica cosa da fare è mettersi comodi e lasciarsi travolgere dalla loro perfezione, gustando ogni vincente sulla riga con un sapore diverso nell’arco delle quattro ore cinquantasette minuti di puro show.
Ha rischiato di tramutarsi in un broncio il sorriso dei giorni scorsi del serbo, ritrovatosi a dover fronteggiare due match point sull’8-7 al quinto set. Sembrava ormai aver pennellato l’ennesimo capolavoro Roger Federer, che alla fine deve però accontentarsi del piatto del finalista. Ha peccato di coraggio il venti volte campione Slam, proprio sul più bello, “macchiando” una prestazione ai limiti della perfezione tecnico-tattica. Così come nella semifinale degli Us Open del 2011 (quando tuttavia la rimonta dal 40-15 da parte di Djokovic, a dirla tutta, fu parecchio aiutata dalla fortuna con una risposta in allungo sulla riga), il numero 1 al mondo risorge e la spunta alla distanza nel primo tie-break della storia in singolo sul 12-12.
L’ha vinta nel territorio di Roger, in striscia aperta da unidici tie-break di fila ai Championships e invece costretto ad alzare bandiera bianca in tutti e tre quelli disputati nell’atto conclusivo. Lì dove la freschezza fisica conta il giusto e azzera più o meno tutto quanto accaduto precedentemente con pochi ma pesantissimi punti, non può essere un caso: Djokovic ha dimostrato di essere più “giocatore” alla stretta finale, ancora una volta legittimando il proprio status all’interno del trio dei più forti di sempre con il quinto Wimbledon in carriera (come Borg) di cui quattro sulla pelle di Federer e uno su quella di Nadal.
La capacità di Nole nel trovare quasi sempre una risposta agli intricati grattacapi proposti dallo svizzero è apparsa disarmante. Non ha “funzionato” – anche per gli ovvi meriti dell’avversario – particolarmente la sua arma principale, la risposta, con soli tre break messi a segno (uno dei quali inutile in un secondo parziale ormai scivolato via) e soli 27 punti vinti contro la prima. Per questo Djokovic ha dovuto dare il massimo in qualsiasi altro aspetto del gioco. A partire dal servizio, chirurgico nelle situazioni insidiose di punteggio con nuvolette di gesso a iosa negli occhi degli spettatori nelle prime file. L’attenzione spasmodica negli appoggi con le ginocchia per tirar su le trappole con il back di Federer. L’atteggiamento mentale, per una volta isolato del tutto rispetto ad un Centre Court per oltre il 90% di fede svizzera. Quell’esultanza signorile e contenuta nonostante la posta in palio e una finale epica ha probabilmente portato inconsapevolmente qualche simpatia in più dalla sua parte. Non è dato invece conoscere il sapore dell’erba di quest’anno, assaggiata come da tradizione dal Djokovic campione ma difficilmente sarà buono quanto il gusto del sedicesimo trionfo in un Major. Come quello di un buon vino.