“Roger and Me”. Con questo post sul proprio sito ufficiale Thomas Fabbiano racconta le emozioni degli allenamenti al fianco di Roger Federer, da pochi giorni vincitore del suo ventesimo Slam. “Sapevo che avrebbe vinto gli Australian Open – racconta – Ancora prima di vedere il tabellone, ancora prima di intuire le condizioni di Nole, Stan e Rafa. Ma c’ho messo un po’ a capire perché. Anzi, a vedere perché. La verita rivelata mi è piovuta tra capo e collo due settimane prima di quel match contro Cilic che ha fotografato una volta per tutte il suo ruolo tra gli immortali. E non solo di questo sport. Era domenica 14 gennaio, a mezzogiorno e dintorni. Mentre sui campi secondari i miei ex compagni di banco remavano sotto il sole per un posto nel main draw – che io m’ero conquistato in anticipo con un buon 2017 – noi eravamo sulla Rod Laver Arena. In quell’impianto da 14mila posti dove lui era a casa e a casa si sentiva. Padrone dello spazio, fisicamente in tiro, tecnicamente rilassato, con la concentrazione a mille. Eppure divertito. Ecco, in quel momento preciso ho pensato: Roger sta camminando sulle nuvole perché si sente troppo superiore agli altri. Non vedo chi possa fermarlo”.
E Fabbiano aveva ragione, ma il percorso verso la vittoria è iniziato da Dubai. Nella pre-season, era infatti arrivata a sorpresa la chiamata al tennista azzurro: “L’allenatore di Federer mi aveva chiesto se il giorno seguente sarei stato arruolabile. Lo ero. Ma anche se non lo fossi stato, una soluzione l’avrei trovata pur di dividere il campo con quello che per tanti è un oggetto misterioso, per altri un oggetto di culto, per quasi tutti il GOAT. Un’opportunità unica. Che poi sono diventate due. Tre. Quattro. Una meglio dell’altra. Solo che se me lo avessero chiesto in quel momento non sarei stato mica così sicuro che la Norman Brookes cup sarebbe stata sua per la sesta volta. So solo che quel primo pomeriggio a Dubai sono arrivato in grande anticipo e che ero teso come al primo appuntamento. Però di certo dopo quel primo pomeriggio a Dubai lui e il suo team devono aver pensato che possono contare su di me a occhi chiusi. Per mia fortuna Federer veniva da un mese e mezzo di inattività, e quel motore in fase di rodaggio mi ha aiutato a rompere il ghiaccio. Un conto è vedersela con un semidio, un’altra è palleggiare con un mortale bene o male alla tua altezza. Palleggiare, poi.
Poi il racconto del lato umano di Federer: “Quattro giorni su un campo da tennis sono abbastanza per capire un giocatore, non un uomo. Eppure quel che ho visto mi è bastato per formarmi un’opinione su Ruggero, come lui chiamava se stesso ogni volta che commetteva un errore non da lui. “Ruggero! Ruggero! Ma perché hai sbagliato questo colpo!” diceva in italiano. E non era l’unica italianata cui ho assistito. Lui e Ivan parlano spesso nella nostra lingua e ho avuto la netta sensazione che Federer ne sapesse abbastanza da poter sostenere una conversazione intera in italiano. Quando il dampener mi è volato dal piatto corde e ci siamo dovuti fermare per raccoglierlo, lui mi ha prima chiesto come si dicesse in italiano e poi s’è fatto una grassa risata quando ha scoperto che lo chiamiamo anti-vibrazioni”.
“Non posso dire che a Dubai, in quei quattro pomeriggi insieme su un campo di tennis, sia nata un’amicizia o qualcosa di paragonabile a una conoscenza – ha concluso – Ho mantenuto le distanze, mi son preso quel che Federer mi ha dato senza pretendere forme di intimità o chiedere altro. So che ha già tantissimi impegni, che oltre al tennis ha una vita famigliare molto intensa e si divide tra mille altre attività, per cui non mi sono spinto oltre. Non mi ci sono neanche scattato un selfie. E ho avuto parecchie remore nel condividere questa esperienza col mondo. A stento ho reso pubbliche un paio di foto scattate con Djokovic dopo quel trittico di allenamenti a cavallo di Natale, sempre a Dubai. Poi, quando a Melbourne è capitato di nuovo, ho sentito che era arrivato il momento di vuotare il sacco”.