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Da un frammento di memoria collettiva, dal resto di una reazione singolare al torneo di Wimbledon 1991, in presa pseudo-diretta:
È scritto. Sarà una finale bellissima.
La quarta tra Stefan Edberg e Boris Becker nel torneo londinese. Consecutiva.
Non può che essere così, sono le prime due teste di serie del torneo, sono loro, sono i più forti.
Quel che bisogna fare è semplicemente attendere. Che scorrano i giorni, che gli avversari si pieghino uno dopo l’altro come spighe di granturco funestate dall’orgogliosa e fatale tramontana. O come birilli.
Non sarà certo il neo-vincitore del Roland Garros e pel di carota Jim Courier a fermare la loro corsa; né, tantomeno, quella giovine speranza dalla folta chioma che risponde al nome di Agassi, visto e considerato quanto avrebbe già dovuto fare, e quanto (poco) invece ha fatto; John McEnroe è oramai un tributo itinerante a se stesso, una cerimonia continua a quel che fu, un congedo prolungato che sempre più sembra suonare “addio” in luogo di ”arrivederci” ; Lendl, si sa, Wimbledon non lo vincerà mai neanche da allenatore.
Il nuovo capitolo di una rivalità sanguigna, fatta di terra e odori salmastri, vertiginosamente antitetica sia pur entro confini con-sanguinei se non con-terranei, antica e contemporaneamente moderna, bramata e temuta, assolutamente unica, è alle porte.
Gli impedimenti per questo genere di eventi-attesi ma allo stesso tempo quasi-inevitabili- solitamente possono presidiare le fasi iniziali di torneo. Una volta valicate le prime insidie, rodati gli animi e calibrate le padelle incordate, solo un prodigio potrebbe sbarrare la strada all’avvento dell’incontro previsto.
È sufficiente assistere all’alba di questo Wimbledon per rendersi conto di come le cose tendano ad andare così come è previsto. Stefan non cede un set neanche per diletto, con caparbietà si rifiuta financo di rendere l’incontro contro McEnroe un evento degno delle memorie d’archivio che reca incise in sé: concede la possibilità di giocarsi un tie-break, e poi basta, la vince senza tentennamenti. È in semifinale.
Boris, superati i primi 2 turni con relativa facilità, fa pensare che non sia poi così scontato giungere in finale, anche una volta che si sia ben incamminati. Olhovskiy gli ruba un set; Bergstrom lo costringe a vincere il tie-break del quarto; Forget gli impone di giocarsi addirittura ad oltranza il tie-break del quarto. Poi, però, in semifinale si riprende, vince contro Wheaton in 3 set e passa ad Edberg il testimone, quello con cui lo svedese deve sbrigare la pratica Stich e far sì che i disegni del fato, dulcis in fundo, si allineino.
Stich, si diceva. Testa di serie numero 6 del seeding, tedesco, in quanto tale poco considerato (visto il nome del suo più rinomato compatriota), rovescio buono, diritto vacillante, non particolarmente costante.
Il suo percorso nel torneo rassicura ancor più coloro che desiderano assistere alla finale delle finali, visto che il duo italico Narciso-Camporese gli ha fatto sudare ben più di qualche maglia zebrata di quelle che sfoggia in questi giorni, prima che Volkov lo costringesse ad un serratissimo quinto set nel quale solo per la tendenza del Destino a prendere posizione ogni tanto, è riuscito a scamparla 7-5. Ok, in quarti di finale si è sbarazzato di Courier in 3 set ma, ribadiamo, l’americano è sicuramente saturo della vittoria parigina.
Il match inizia come ci si aspettava, con Edberg che incalza col suo gioco volatile e Stich che appare in preda all’indecisione su quale via eleggere per perdere il punto nel modo migliore. Non è che non gli viaggino i colpi, semplicemente non corrispondono bastantemente al parametro velocità-varietà-profondità indispensabile per scalfire la corazza svedese.
E infatti, 6-4 per la testa di serie numero 1 del torneo, con agio.
Il secondo parziale incomincia in modo simile al primo, o se non altro lo splendore norreno si manifesta in concomitanza di ogni turno di servizio diretto dallo svedese. Solo che, dall’altra parte del campo, qualcosa sembra cambiare. Normalmente si dice che nel tennis non può accadere che un giocatore innalzi il suo livello di gioco senza che contestualmente l’avversario abbassi il suo. Eppure qui sembra che nonostante Edberg non dia alcun segno di cedimento, Stich si innalzi, tanto nel balzo acchiappa-e-rimetti-tutto nei pressi della rete quanto nel valore complessivo del gioco che mette in campo. Non perde il servizio. Non sembra proprio nelle condizioni di poterlo perdere. Non a caso, si va al tie-break.
Un batter d’ala e il teutonico va in vantaggio, poi avverte che la presenza svedese si sta riaffacciando alla sua porta, ingrana la marcia più alta, vince 7-5. Siamo un set pari.
Il terzo parziale non sembra procedere poi tanto diversamente dal secondo, il che, nonostante quel che si potrebbe pensare, è stupefacente a dir poco.
Edberg attacca, fende l’aria con i suoi gesti secco-umidi, smorza ed “elargisce abbrivi” alla pallina, ma non breakka. Stich non breakka, ma tirando continui passanti disegna le distanze maggiori che si possano creare tra giocatore a rete e pallina in arrivo, pur rispettando la famosa clausola secondo cui la sfera deve rimanere entro le linee del campo. Non solo, la sua volée è energia elettrica in dispersione, la cui carica si manifesta tanto nel punto di collisione, quanto nel polo d’arrivo, quanto nello strascico corporeo che Stich fa accompagnare al colpo. Dinamicità.
“Non a caso, si va al tiebreak.”
Questa volta il combattimento è serrato, colpo a colpo, sortita contro sortita, un punto a testa.
5-5, e il Fato sembra prendere per mano il tedesco. Un servizio non impeccabile trova nella risposta di Edberg un inaspettato affondamento in rete. Il successivo attacco dello svedese, trova in un pallonetto non impeccabile del tedesco la propria inaspettata manchevolezza nel respingerlo, no, non solo, nel colpirlo tout court. Sembra in altri termini che non potesse che andare così.
7-5 Stich.
Ma c’è ancora un quarto set, tutto si riassesterà, tutto non può che riassestarsi.
La sensazione è che però il tedesco si senta investito di una qualche aura primigenia, una forza tellurica e allo stesso tempo celeste che se tanto gli fa sentire il contatto con la madre terra egualmente gli permette la libera levitazione. Se c’è un giocatore che potrebbe smarrire il servizio, quello pare essere lo svedese.
Eppure, il titanismo degli eroi, Edberg riesce ad opporsi tenacemente, portando al tiebreak anche il quarto parziale. È difficile stabilire se a questo punto prevalga la consapevolezza che i giochi siano comunque fatti, che nulla oramai possa insorgere per dare un’aurea mano al beniamino svedese, oppure la sorpresa perché dei giochi tanto inaspettati siano, così naturalmente, fatti.
Come se fosse scritto che questo tiebreak debba essere appannaggio dello sfavorito, di colui che non ci si aspetterebbe che lo vinca, ma si sa che lo vincerà.
E “non a caso”, 7-2 Stich, senza l’ombra di un tentennamento.
La sensazione è di quelle più strane possibili, quella mescidata di rammarico-sorpresa-inevitabilità-consapevolezza che se anche ferisce l’orgoglio, non intacca l’animo. Stich ha giocato divinamente, Edberg ha risposto a tono pur non potendo contrastare dei voleri tanto superiori. È giusto così, Odino deve essere mangiato dal Lupo Fernir.
Purtroppo, però, la sorpresa del torneo è compiuta e nell’approssimarsi alla finale si avverte quel senso di svuotamento che segue i grandi avvenimenti e precede “quegli altri” che riempiranno nuovamente l’animo, solo con molta calma, un giorno, in futuro. Ed è proprio in questa fase di piena digestione, che inizia il match tra Germania 1 e Germania 2.
Come ci si poteva attendere, le cose vanno via lisce. Il giocatore che gioca meglio gioca di gran lunga meglio, e il vantaggio segue proporzionalmente la virtù messa in campo. I rovesci sono staffilate continue che riducono le sortite avversarie ad un colabrodo; nei pressi della rete la pallina non sembra fuoriuscire da un piatto-corde, né solamente dal palmo che lo tiene stretto, ma da quella sottotraccia spirituale che anticipa ogni gesto in formato virtuale per poi riprodurne l’assetto in concreto, sul campo, nel modo in cui idealmente lo si era configurato. Processo di incarnazione che se non sempre riesce nell’intento della congruenza tra piano spirituale e materiale, quest’oggi sembra significare una completa adiacenza tra le due sfere. Ma la sfera di gioco, si sa, è solamente una. E così anche il risultato. Possessi imperituri di colui che vi incide sopra il suo marchio. 6-4 7-6 6-4 è una sigla fin troppo univoca per equivocare sul possessore.
Michael Stich.
Tanto cocchiere da fondo campo, quanto cavallo alato a rete.
Nel complesso, dunque, una Valchiria.
Del resto, una volta che il primo miracolo era compiuto, riprodurne l’eco non era che naturale corollario.
Un giocatore che così tanta grazia e sicurezza aveva legate a sé qualche giorno fa, non poteva certo slacciarle con troppa semplicità. Naturale.
Germania 1 e Germania 2 hanno giocato e, naturalmente, ha vinto Germania 1.
Perché oggi accade proprio così, in questo breve istante che reca però le vestigia del mito, Michael Stich trionfa a Wimbledon, e vi trionferà ancora a lungo.
Come se, in qualche modo, questo evento sia destinato a ripetersi, quotidianamente. Come se, anche in futuro, esso risulterà contemporaneo a chi vi si approccerà. Come se, forse, pur essendo stato scritto già molto tempo prima, la sua rilettura apparirà sempre nuova, sempre presente.
Attualità del classico, o forse, sua inattualità rispetto ad un qualsiasi tempo che ne determini l’accadimento.
È scritto, sarà una finale bellissima.