Prima che il suo dritto lungo-linea rimbalzi per la seconda volta, Jana Novotna si è già inginocchiata sul Centre Court. Braccia al cielo, le prime lacrime sul viso con la regia della BBC che indugia immediatamente sul volto sorridente della Duchessa di Kent. È il 4 luglio 1998. Questa è però già la fine della storia. Occorre riavvolgere il nastro e partire dall’inizio perché, come ogni favola che si rispetti, anche questa comincia con un “c’era una volta”.
C’era una volta il tennis serve and volley. Audaci giocatori dai servizi poderosi. A rete sulla prima, a rete sulla seconda. Negli anni ’90, l’albo d’oro del torneo di Wimbledon annovera brillanti esempi della categoria. Dalla potenza del sette volte campione Sampras alla classe di Edberg, passando per le irripetibili (e irripetute) affermazioni di Stich e Krajicek. Nel circuito femminile il serve and volley è gemma più rara. L’epopea Navratilova è ormai agli sgoccioli, la Graf ama colpire al volo ma non prima di aver costruito il punto da fondo. Che dire, poi, della vittoria di Conchita Martinez nel 1994, proprio contro Martina Navratilova. La terraiola più pura che sconfigge la più verace (e vorace) giocatrice serve and volley. Vien quasi da pensare che nei primi viaggi attraverso il tunnel della Manica, ultimato proprio nel 1994, qualcuno abbia trasportato un po’ di terra rossa dai campi di Parigi a quelli dell’All England Club. Eppure, tra le finaliste di Wimbledon di quel periodo, balza agli occhi un nome dalle chiare origini ceche: Jana Novotna, nata e cresciuta a Brno, città principale della Moravia e seconda del Paese dopo la capitale Praga. Scuola ceca, movimenti puliti, un ottimo servizio che le ha regalato le gioie maggiori sulle superfici rapide. Ma soprattutto, un superbo gioco di volo. Come la connazionale Navratilova (che poi sarà naturalizzata americana), la Novotna interpreta un tennis frizzante, aggressivo, che già nel 1991 la porta in finale agli Australian Open, all’età di 22 anni, dopo aver sconfitto la Graf nei quarti (prima volta in undici confronti diretti) e Arantxa Sanchez in semifinale. Ma una 18enne Monica Seles si frappone tra la ceca e la vittoria Slam. Appuntamento solo rinviato? Forse. I campi di Wimbledon si adattano perfettamente al gioco della ceca. Nel ’93, la Novotna raggiunge la finale al termine di un percorso pressoché perfetto. Un solo set perso, successi nei quarti contro la quarta testa di serie Gabriela Sabatini e in semifinale contro il mostro sacro Martina Navratilova (mai sconfitta in passato e mai più sconfitta in futuro). Sabato 3 luglio, Jana affronta la numero 1 del mondo Steffi Graf, già vincitrice di 12 prove dello Slam, di cui 4 a Wimbledon. Un equilibrato primo set termina nelle mani della tedesca, 8 punti a 6 al tie break. La Novotna non fa una piega, continua a neutralizzare imperterrita i passanti dell’avversaria, e diventa progressivamente padrona del campo. Chiude il secondo set 6-1. Un primo break nel terzo parziale sembra finalmente indirizzare l’incontro dalla sua parte. Un secondo break sembra avvicinarla ancor più alla vittoria, specie perché ottenuto grazie a un doppio fallo della Graf, sintomo prodromico della resa. La Novotna si trova 4-1, servizio e 40-30. Non entra la prima. La seconda termina lunga e larga, abbondantemente. Parità. Stavolta prima in campo, risposta incerta della Graf, sulla quale la ceca può chiudere a rete l’ennesima volèe vincente della sua partita. È una delle più agevoli, palla alta sul dritto, basta appoggiarla dall’altra parte. Ma la sbaglia. Incredibilmente la sbaglia, spedendola ampiamente fuori dal rettangolo di gioco. Due errori marchiani, indici di un’improvvisa ansia di vittoria che ne contraddistinguerà la carriera. Vantaggio Graf, smash in rete della Novotna: 4-2. Nel game successivo, la 24enne di Brno si trova 15-40, ma stavolta emerge la classe della numero 1 del mondo, che con un ace e un passante di rovescio si riporta in parità, fino a risalire poi sul 4-3. La Novotna non avrà più occasioni per conquistare il quinto game del set. Tra doppi falli, volèe mancate e passanti steccati, gli ultimi giochi scorrono trasportati beffardamente da un destino che appare già scritto. La Graf chiude 6-4 con uno smash a campo aperto. Inizialmente, la ceca non sembra rendersi conto dell’accaduto. Siede nel suo angolo, in attesa di essere chiamata per la premiazione. Quando la Duchessa di Kent le consegna il premio per la seconda classificata, Jana realizza di aver perso una finale ormai vinta, a Wimbledon. Scoppia a piangere. La Duchessa le sorride, le rivolge parole di conforto (“Don’t worry Jana, you’ll be back next year”), le offre maternamente una spalla su cui riversare lacrime amare. Le foto faranno il giro del mondo. “È molto buffo. La gente crede che aver perso con Steffi Graf nel 1993 sia stata una triste esperienza. Per me, è stata la cosa migliore che mi sia capitata nella vita. Nei giorni successivi, a causa di quello che successe durante la cerimonia e durante il match, ho aperto i giornali ed ero sulla prima pagina di ogni quotidiano. Mi sentivo come se avessi vinto.” Queste son le parole con cui la Novotna commentò quanto accaduto quel giorno.
Ma quel sabato londinese segnò profondamente la carriera della bionda ceca, consegnandola alla storia come “Jana cuor di coniglio”, soprannome affibbiatole da Gianni Clerici dopo ripetuti episodi di manifesta psicolabilità. Celeberrimo quello avvenuto a Parigi, durante un terzo turno del Roland Garros. La Novotna conduceva 5-0, 0-40 sul servizio dell’americana Chanda Rubin. Riuscì a perdere l’incontro, sprecando complessivamente nove match point. Ormai anche la povera ragazza riconosceva di essere vittima di una sorta di ansia da vittoria, un complesso psicologico capace di annebbiarne la mente e paralizzarne il braccio. Illustri predecessori di questo sport, originari del suo stesso Paese, hanno in passato sofferto di un timore assimilabile. Jaroslav Drobny, la prima Navratilova, persino il glaciale Ivan Lendl a inizio carriera pareva incapace di aggiudicarsi una finale. Forse solo sfortunate coincidenze, maggior fortuna degli avversari nei momenti decisivi. La Dea bendata è cieca, d’altronde, ma questa sindrome della vittoria di ceco sembra avere soltanto il passaporto. Per la Novotna, Wimbledon rimane per anni un desiderio insoddisfatto. Il talento sul prato tennistico non impallidisce, ma più passa il tempo più il ricordo di quella finale del ’93 sembra affossare le speranze di gloria. Nel 1997 si presenta però un’insperata seconda opportunità. La Graf, dalla quale è stata sconfitta anche nelle ultime due edizioni, è alle prese con continui problemi fisici, e pertanto non partecipa al torneo. Jana giunge nuovamente in finale. Trova sulla sua strada una 16enne recentemente divenuta la più giovane numero 1 della storia, Martina Hingis, vincitrice degli Australian Open e finalista al Roland Garros. La ceca vince il primo set con sorprendente facilità, 6 giochi a 2, sciorinando il solito tennis spregiudicato e spettacolare. Ma alla lunga distanza soffre la maggior freschezza fisica dell’avversaria, finendo per uscire sconfitta un’altra volta, 6-3 al terzo set. La cerimonia di premiazione non riserva lacrime e abbracci consolatori, ma un siparietto tristemente divertente, durante il quale la Novotna strappa per gioco il piatto di Wimbledon dalle mani della rivale. Si concede anche un giro di campo festante e sorridente, quasi rassegnata all’idea di un secondo posto dal quale non potrà arrampicarsi più in alto. L’anno seguente compirà 30 anni. I giornali scrivono che non vincerà più, anche l’ultima opportunità è andata perduta.
Ma Wimbledon sa essere clemente con chi ne ha sedotto i prati e ammaliato gli spettatori. Nel 1998, Jana si presenta sui campi di Church Road come terza favorita del seeding. La precedono Martina Hingis, ancora numero 1 del mondo, e Lindsay Davenport. Testa di serie numero 4 è Steffi Graf, di ritorno a Londra dopo l’assenza forzata dell’anno precedente. La Novotna ha un bilancio fortemente negativo con tutte e tre: due successi e sei sconfitte con la Hingis, cinque sconfitte su cinque con la Davenport. Con la Graf poi, il confronto è diventato impietoso: ventisette vittorie della tedesca contro le sole quattro della Novotna. Ma Steffi viene eliminata a sorpresa da Natasa Zvereva, che sullo slancio raggiunge la semifinale. La Davenport viene estromessa nei quarti dalla francese Nathalie Tauziat, che raggiunge proprio la Zvereva nella prima semifinale. Dall’altra parte, nuovamente opposte la Hingis e la Novotna, contendenti per un posto in finale. La ceca vince l’incontro, con un doppio 6-4, travolgendo sul piano del gioco la giovane svizzera. Per la terza volta, Jana Novotna è in finale a Wimbledon. Si troverà di fronte Nathalie Tauziat. Non la numero 1 del mondo, ma la testa di serie numero 16. L’occasione è davvero irripetibile. Arriviamo, dunque, all’inizio del racconto. Il 4 luglio del 1998, i consueti nuvoloni carichi di pioggia accolgono sul Centre Court le finaliste del singolare femminile. L’inizio della Novotna rispecchia perfettamente il grigiore del cielo. Mentre la francese appare sciolta e leggera sul campo, Jana incappa in numerosi errori. Due doppi falli regalano un immediato break alla sua avversaria. Sembra un film già visto. Ma sotto 2-0 e 40-15 sul servizio della Tauziat, la ceca si aggiudica due punti consecutivi, accogliendo con un urlo d’incoraggiamento la volèe con cui conquista il 40 pari. È la svolta della partita. Man mano che la Novotna acquista sicurezza, le nuvole si diradano e il cielo torna a sorridere. Jana vince il primo set 6-4, e nel secondo si dimostra superiore sin dall’inizio. Quando si appresta a servire per il match, sul 5-4 in suo favore, ecco riaffiorare il celebre cuor di coniglio, sopito per ricomparire nel momento di maggior responsabilità. La Tauziat aggancia e sorpassa, e in tanti credono che la partita avrà l’ennesimo finale drammatico. La Novotna va a servire sotto 5-6 nel punteggio, ma trascina l’incontro al tie-break, spinta da un pubblico che ha abbandonato il suo proverbiale british aplomb. Pochi minuti dopo, sdraiata sul campo che le ha regalato tanti dispiaceri in passato, Jana piange di felicità dopo aver colpito l’ultimo dritto vincente del suo incontro. La scalata verso le tribune è ormai diventata tradizione. La Novotna non si sottrae. Abbraccia per prima Hana Madlinkova, l’allenatrice che l’ha spinta a provarci ancora una volta. Tocca poi alla madre, più commossa di lei. Piange anche il pubblico, padre putativo della ceca di Brno, che ne ha saputo conquistare la fedeltà col proprio talento genuino. Durante la premiazione, va in scena un emozionante scambio di battute tra Jana e la duchessa di Kent, che culmina con la consegna del trofeo. Le lacrime hanno ceduto il posto al sorriso, i campi da tennis più famosi del mondo hanno scritto un’altra indimenticabile pagina di storia. È stato un lungo corteggiamento. Son passati cinque anni da quel primo appuntamento del 1993. Anni di raffinati attacchi in controtempo ed eleganti tocchi nei pressi della rete. Alla fine, però, anche Wimbledon ha ceduto al fascino di Jana Novotna.