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Nel lontano 1988, quando ad appena sedici anni vince a Sofia il suo primo torneo in carriera, era già chiaro che Inmaculada Concepción Martínez, per tutti Conchita, non fosse una giocatrice come le altre. Ma quel suo modo così atipico di colpire in top, quella sua delicatezza nel tessere gli scambi disegnando lievemente il campo, in un’epoca in cui il tennis femminile si stava orientando irreversibilmente verso la potenza a discapito della classe pura e la sua provenienza latina, lasciavano pensare che un giorno avrebbe potuto magari trionfare sul rosso di Parigi, e non certo che sarebbe entrata negli annali del tennis per aver sollevato il piatto di Wimbledon al termine di due delle settimane più folli del tennis femminile nell’estate del 1994.
Non per le 5 Fed Cup, non per le 3 medaglie olimpiche tutte conquistate in coppia con la sua rivale di sempre Arantxa Sanchez, non per i 33 titoli di singolare e 13 di doppio, non per essersi issata fino al numero 2 del ranking nel 1995, nemmeno in terra italica siamo soliti ricordarla per i 4 trionfi consecutivi al Foro: Conchita Martinez entra di diritto nella storia del tennis per il successo a Wimbledon ‘94, unico per lei in uno Slam, ed ancora l’unico per una tennista spagnola sull’erba londinese. Due finali perse per Arantxa nei due anni successivi e poi un ventennio di vuoto prima di rivedere una spagnola in finale l’anno scorso, quella Garbine Muguruza, con cui proprio Conchita, ora suo capitano in Fed Cup (nonché fresca di nomina anche come capitano di Davis), dimostra di avere un grandissimo feeling, avendone anche “orientato” la decisione di acquisire la nazionalità spagnola piuttosto che venezuelana.
Ma torniamo al 1994, a quelle magiche settimane che hanno cambiato la storia della tennista di Monzon: non che Conchita, dal numero 3 del seeding, non fosse tra le favorite del torneo, ma all’epoca quando ai blocchi di partenza c’era Stefi Graf, già 5 volte vincitrice a Curch Road, il pronostico in genere era già scritto. Ma la tedesca perde inaspettatamente per 7-5 7-6 al primo turno contro la 33enne americana di colore Lori McNeil, offrendo concrete speranze alle altre teste di serie ed in particolare alla tennista aragonese, collocata dalla stessa parte del tabellone: Conchita supera agevolmente i primi tre turni contro Simpson-Alter, Miyagi e Tauziat, poi dagli ottavi in poi ha sempre bisogno del terzo set per superare la specialista australiana Kristine Kunce, una giovanissima Lindsay Davenport e infine proprio la McNeil, sconfitta in rimonta per 10-8 al terzo set.
La Martinez in finale trova la 37enne Martina Navratilova, all’ultima stagione in carriera e con già 9 titoli di Wimbledon nel Palmares, l’ultimo dei quali conquistato però 4 anni prima, ma per il resto a secco di titoli Slam dal 1987. Per trattarsi di una versione crepuscolare della Navratilova, in questo caso però fa abbastanza paura, dal momento che supera i primi quattro turni concedendo alle avversarie appena 15 game, cede il primo set del suo torneo solo ai quarti contro Jana Novotna, cui però rifila un 6-0 6-1 nei 2 parziali seguenti, ed infine supera in semifinale per 6-4 7-6 la brillante doppista americana Gigi Fernandez.
Quando palleggiava contro il muro del campetto vicino casa a Monzon, la piccola Conchita immaginava che quel muro fosse proprio Martina Navratilova ed adesso, dopo averla sconfitta 2 mesi prima nella finale di Roma, se la ritrova di fronte nel suo giardino di casa, nella partita che vale una carriera: in avvio la spagnola è concentrata, quasi glaciale, mentre la Navratilova al passo d’addio sente la pressione del dover chiudere alla grande una carriera straordinaria. Conchita vince il primo set per 6-4, ma la statunitense reagisce alla grande e si porta a casa il secondo parziale per 6-3: il set decisivo in avvio è in equilibrio, poi con la Martinez in vantaggio 4-3 e servizio, la Navratilova si porta sul 15-40, ma Conchita grazie a 2 passanti vincenti di rovescio annulla tutto, portandosi sul 5-3. L’americana insiste ad attaccare sul rovescio della spagnola, quel colpo che è il suo marchio di fabbrica, quel rovescio che da piccola Conchita giocava a due mani, ma che un giorno, guardando ammirata Gabriela Sabatini in tv assieme ad uno dei suoi primi allenatori Eric Van Harpen, decise che avrebbe giocato per sempre ad una mano, facendo le sue fortune e gettando le basi per questa ed altre storie. Ultimo game, altri due passantoni di rovescio mandano la spagnola a match point, il punto decisivo poi è l’emblema della finale e forse del torneo: stavolta è Conchita che attacca, sfrontatamente, rovescio contro rovescio, una, due, tre volte, sull’approccio decisivo con il back la regina abdica spedendo in corridoio il suo passante mancino. 6-3 Martinez, il resto sono le lacrime di gioia, l’imbarazzo di Conchita davanti a Lady D, i genitori che si baciano felici in tribuna, la Navratilova che piange nel salutare il centrale per l’ultima volta e ruba un po’ la scena, ma soltanto un po’: Conchita adesso è immortale, regina per un giorno e per sempre, trionfatrice dove sembrava impossibile per chi è cresciuto a pane e terra rossa, ma ha saputo reinventarsi in questi magici pomeriggi di un estate londinese.