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Tennis, Pablo Lozano: “Sara mi mancherà molto, decisione nata agli Us Open”

Sara Errani - Foto Antonio Fraioli

A poche settimane dalla rottura del rapporto con Sara Errani, Pablo Lozano ha rilasciato un’interessante intervista esclusiva per il sito spagnolo “Puntodebreak.com”. L’ormai ex allenatore della 29enne romagnola ha ripercorso i 12 anni di convivenza con Sara, dal 2005 fino alla recente separazione, svelando in modo non banale le chiavi del successo dell’azzurra, nonché i retroscena del loro divorzio. Il tutto condito anche da qualche simpatico aneddoto, sintomatico del carattere della tennista italiana. Mettetevi comodi.

Pablo, innanzitutto cosa è successo?
In 12 anni succedono molte cose. Strano dovermi separare da Sara e vedere come lei formi una nuova squadra, ma è logico e normale, nel circuito non ci sono tante relazioni che durino tanto. Questo è uno sport di competizione. Per quanto possa essere buona la relazione fuori dal campo, se i risultati non arrivano devi farti da parte. I cicli finiscono, nessuna sorpresa.

Non ti sembra ingiusto che siano i risultati a comandare, soprattutto dopo 12 anni di lavoro insieme?
I risultati decidono entro una logica. Non è importante che a fine anno sia 12esima o 20esima. Il problema è che Sara ha smesso di essere competitiva, lei che è stata una giocatrice sempre molto costante. Allora ti rendi conto che ha perso la sua essenza. Io sono il responsabile, perciò abbiamo adottato le misure necessarie.

Chi ha preso la decisione?
Tutto parte dalla stagione americana e dallo Us Open, dove i risultati non son stati buoni, anche se lei continuava ad essere tra le prime 40 del mondo. Però ciascuna giocatrice ha aspettative diverse. Si nota quando qualcuno non è a suo agio. Sara è estremamente competitiva, è meraviglioso stare al suo fianco quando si vince, un po’ meno quando si perde, e quest’anno le sconfitte son state tante. È stata una decisione molto dura, ma la migliore possibile. L’ha dovuta prendere lei, non posso essere io a lasciarla perché il rendimento non è buono. Quando me lo ha detto ho dimenticato me stesso e l’ho appoggiata al 100%. Per me è come un membro della mia famiglia.

In questi 12 anni di rapporto hai mai immaginato un finale del genere?
Ogni volta che perdeva tre partite pensavo di essere pronto a lasciare. Così deve essere, anche se la nostra era una relazione meravigliosa. Se io sono il responsabile del tuo percorso, mi stai pagando e non arrivano i risultati, bisogna prendere una decisione. Un allenatore non può non assumersi le sue responsabilità.

Toni Nadal ha sempre detto di non essere responsabile dei successi di Rafa, e di non essere responsabile adesso delle sue sconfitte. Non ti sembra strano?
Non mi permetterei mai di giudicare una persona come Toni, che ha avuto dei successi straordinari. Ognuno ha il suo modo di fare e di pensare. Ovviamente è il giocatore che scende in campo, però deve ricevere delle direttive adeguate. Poi ci sono giocatori già fortemente rodati, con molti anni di lavoro alle spalle, rispetto ai quali un nuovo allenatore incide meno. Potete considerarmi un allenatore di successo, ma solo perché avevo tra le mani qualcosa di molto valido. Io fornivo le indicazioni, Sara si lasciava aiutare. La combinazione ha funzionato bene.

Come son stati gli inizi?
Io allenavo qui a Valencia. Mi chiesero di allenare Sara in un altro luogo. Lei aveva 17 anni, era nella top 600 del ranking. Veniva da Barcellona, dopo un lungo infortunio. Abbiamo fatto un anno di prova. Io avevo bisogno di seguire qualcuno, di poterne influenzare il rendimento, e già dopo tre mesi vedevo dei miglioramenti con lei. Aveva tantissima fiducia in me, così iniziammo a lavorare più seriamente. L’anno dopo si trasferì nell’Accademia di Valencia, con David Andrés come preparatore fisico. A volte ci allenavamo con altri giocatori come Ferrer, Andreev, Medina-Garrigues, Kirilenko etc. Salimmo progressivamente di livello, e questo è stato il nostro lavoro fino a due mesi fa.

Immagino abbia tanti aneddoti da raccontare, dimmi qualcosa.
Roma 2005. Giocavamo alla play station tra un allenamento e l’altro. Lei prendeva sempre Hewitt, io Nalbandian, ingaggiavamo battaglie durissime. Per farti un’idea: stavamo giocando un tie-break ed era talmente nervosa che le misurammo le pulsazioni. Era a 192. Seduta su una sedia! Mi resi conto che avevo in mano una bomba, pronta per essere accesa e gettata nella competizione per ricavarne il massimo. Non aveva l’auto migliore, ma riuscimmo a fargliela guidare magistralmente, sfruttando i suoi punti di forza. Mobilità, intelligenza, una capacità incredibile di soffrire. Questo modo di essere l’ha resa tanto competitiva.

Magari un altro allenatore, vedendole servizio e dritto, non avrebbe neanche iniziato il viaggio.
O la avrebbe fatta servire a 190 km/h. Non dico che il servizio non sia importante, è la cosa su cui abbiamo lavorato di più. Però non focalizzavo l’attenzione solo su quello, non era un’arma fondamentale nel suo tennis. Mi pagavano perché vincesse, non perché giocasse bene. La chiave era portare le partite nel suo territorio, in quelle situazioni nelle quali era migliore delle avversarie.

Tra voi è nato un rapporto di grande fiducia e improntato sulla convinzione, quella che provasti a trasmettere a Sara sin dal primo momento.
Non pensavo potesse arrivare dove è arrivata. La convinzione l’acquisti vincendo le partite, facendo quel che vuoi sul campo, stando bene fisicamente. Non l’acquisti se ti dicono che sei forte, normalmente questo è controproducente. Io ho sempre avuto fiducia in lei, in quello che faceva e per come era, una giocatrice fuori dal normale. Ricordo quando vinse il suo primo torneo, a Palermo nel 2008. La cosa più semplice sarebbe stata riposarsi e godersi il titolo, tornare a casa per ricevere i complimenti. Invece decidemmo di andare subito a Portoroz, non volevo che si cullasse sui successi, con tante cose ancora da fare. Vinse anche quel torneo, distruggendo tutte fino alla finale.

Ascoltandoti mi viene in mente David Ferrer. Sembra la stessa filosofia di lavoro e lo stesso carattere.
Per noi David è stato un modello. Andavamo ad allenarci alle 8:45 e “Ferru” correva già da una parte all’altra. Per loro, fare certi sforzi rappresentava il modo di lavorare. Ferrer è sempre stato un punto di riferimento.

Tornando al 2016, è curioso che la peggior stagione di Sara quanto a numeri (21 vittorie contro 24 sconfitte) coincida con il titolo più importante della sua carriera (a Dubai a febbraio).
Fu curioso perché lei non voleva andarci. Aveva giocato bene a Sydney (sconfitta nei quarti dalla Kuznetsova) e a Melbourne perse al primo turno un incontro praticamente già vinto. Poi soffrì molto in Fed Cup, perdendo due partite su due. Tornò qui a Valencia che era stanca e sfiduciata. Ma aveva bisogno di partite per tornare a sentirsi bene, è una macchina da guerra che cresce nel corso della battaglia, giocando meglio ogni partita che passa. Andammo a Dubai e vinse piangendo tutti i giorni. Fu una settimana durissima, una sofferenza eccessiva. Per star bene fu costretta a spremersi fino allo sfinimento.

In tutto questo periodo, quando ti sei sentito maggiormente orgoglioso di lei?
Non c’è un momento particolare, ricordo tutto l’insieme. Mi rimase impressa una sua frase al Roland Garros 2012, dopo la finale persa con la Sharapova. Furono due settimane molto stressanti, tra singolo e doppio. Alla fine di quella partita mi prese da parte e mi disse “Pablo, adesso mi devi aiutare più che mai”. Era reduce dai quarti in Australia, vittoria ad Acapulco, Barcellona e Budapest, oltre a essere numero 1 di doppio. Però anziché godersi il momento pensò subito a invocare il mio aiuto. Fu molto gratificante. Era il suo momento di maggior successo e mi fece capire che aveva davvero bisogno di me al suo fianco. Per questo non sono orgoglioso dei suoi titoli o del suo palmares, ma del suo modo di essere come giocatrice e come persona. Troppo facile essere orgogliosi dei successi, do maggior valore a tutte quelle volte in cui fu in difficoltà e si lasciò aiutare per tornare in alto.

Siete coscienti di aver raggiunto grandi traguardi, nonostante i limiti del gioco di Sara?
Io ho sempre sostenuto che Sara rappresentasse una persona normale, come quelle di cui è composto il 90% della società del resto. Questo però non vuol dire che non potesse raggiungere traguardi importanti. Io non la vidi mai come svantaggiata rispetto alle altre. Anche lei ha qualcosa di eccezionale, magari di minor attrazione per la gente ma ugualmente di grande efficacia. Se tutte giocassero come la Sharapova vincerebbe sempre la più alta o la più potente. Io dovevo trovare una formula vincente anche per una giocatrice di 1,60 m. Quello che non accetto è che una ragazza alta 1 e 60 non possa giocare bene a tennis. Mi rifiuto di accettarlo. Quello che devi fare è sfruttare al massimo quello che hai. Sara è l’esempio che si può arrivare al successo anche con le sue condizioni fisiche. Se avessi una squadra di calcio vorrei che fosse composta da 11 Errani.

Come cambierà la tua vita dopo questa rottura?
Sicuramente inizierò a pensare di più a me. Mi mancherà Sara, nel nostro lavoro quotidiano, perché amo giocare a tennis e con lei giocavo tantissimo. È stato un periodo bellissimo. Vederla competere, superare sfide, questo mi mancherà moltissimo. Adesso mi prenderò un po’ di tempo per stare tranquillo e analizzare il prossimo progetto.

Hai già qualcosa in mente?
Si pensa sempre a qualcosa. Sicuramente sarà collegata col tennis di alto livello. Il problema è che non posso permettermi di viaggiare con un altro tennista 20 settimane all’anno. Non posso permettermelo io e non me lo permette la mia famiglia. Con Sara le cose si allargarono più di quanto avessi messo in conto. Vedremo. Per il momento starò qui, godendomi mia moglie e i miei figli.

Quando arriverà il momento, che progetto ti piacerebbe iniziare?
Qualcosa di simile a quello che ho fatto con Sara, ma con una squadra più numerosa. Con lei eravamo solo io e David Andrés, il miglior preparatore fisico che esista. Spesso mi sarebbe piaciuto avere un’altra persona a cui delegare i compiti in certe settimane. In 10 anni non ho saltato più di 10 tornei, e lei era sempre una tra le tenniste che giocavano di più. L’idea sarebbe fare qualcosa di simile, però all’interno di una squadra.

Visto il successo che hai avuto con Sara, immagino che sia stimolante toccare il cielo partendo da zero.
Certamente è affascinante però nasconde anche i suoi rischi. Sara poteva licenziarmi in tante occasioni quando le cose non andavano bene. Tu puoi fare al meglio il tuo lavoro e arrivare a un risultato che ti eri prefissato, per esempio arrivare alla top10, e lì il giocatore potrebbe decidere di salutarti. Può essere, è successo. Solo l’atleta decide cosa fare, indipendentemente dai risultati conta soprattutto l’influenza che hai su di lui. Io ho sempre detto a Sara di pagarmi finché avrebbe avuto bisogno di me. E così è andata.

E che succederà a Sara? In che direzione andrà il suo nuovo progetto?
Immagino che starà in Italia per stare più vicina alla famiglia. Ama Valencia, però sicuramente preferirebbe stare vicino a casa. Qui era più che altro un posto di lavoro.

Qualunque sia il suo nuovo team, su quali aspetti, che quest’anno non hanno funzionato, dovrebbe concentrarsi?
Quel che è successo è successo, nella vita capita di passare brutti momenti. Il suo nuovo team farà di tutto per aiutarla e lei dovrà fare in modo che possano davvero aiutarla. Fu Sara a insegnarmi a darle una mano, non il contrario. L’obiettivo finale è che succeda ciò che l’allenatore si è prefissato.

Keys, Pliskova, Muguruza… come si presenta il futuro del tennis femminile? Pensi che Sara potrà recuperare un posto tra le migliori? Tornerà in top20?
Non è questo il suo obiettivo. Non lo era neanche quando stava al top. Starà dove merita di stare. Cercherà di realizzare nel migliore dei modi il suo nuovo progetto, e se lo affronterà con gioia e convinzione non ho dubbi che sarà almeno tra le prime 30.

 

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