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Inizia a tirare i primi colpi di riscaldamento sulla Rod Laver Arena quando in Italia è quasi ora di pranzo. È sfavorito nel secondo turno degli Australian Open contro l’ex promessa aussie Thanasi Kokkinakis, un altro che, come lui, conosce alla perfezione cosa significhi avere il fisico non dalla propria parte. Lo è ancora di più dopo le quasi cinque ore impiegate per battere Matteo Berrettini all’esordio, una performance difficilmente replicabile per un trentacinquenne con una protesi metallica all’anca destra. Sei ore più tardi, però, Andy Murray è ancora lì, sfiancato da una risalita che di umano possiede ben poco. L’avversario, infatti, si è trovato sopra di due set e nel terzo ha anche servito per l’incontro.
In quel frangente, tuttavia, si è incartato perdendo il successivo tie-break e, per inerzia, anche la quarta frazione. Il quinto e decisivo parziale è stato logorante, una lotta di nervi furibonda, enfatizzata da un pubblico visibilmente combattuto tra un campione senza tempo e l’idolo di casa. Dopo la palla break azzannata nell’undicesimo game, il match point è per il cinque volte finalista dalle parti di Melbourne Park. Murray serve debole e centrale, Kokkinakis ne approfitta per entrare nello scambio. Il dritto lungolinea del britannico pizzica la riga e costringe l’australiano sulla difensiva. Due colpi più tardi, Andy pulisce il campo con il rovescio lungolinea, si leva il cappellino bianco e guarda fisso il suo angolo prima di stringere la mano del rivale tra le lacrime di mamma Judy e l’approvazione di coach Ivan Lendl.
Certamente non si tratta del successo più importante di Murray che, è bene ricordarlo, in carriera può vantare tre titoli dello Slam e due medaglie d’oro olimpiche. Indubbiamente, però, è uno dei più iconici, una vittoria-thrilling al termine della partita più lunga della sua vita tennistica, il secondo match a durare di più nella storia del torneo. Il campo principale di Melbourne, infatti, è stato il teatro della sua più alta dimostrazione di resilienza, quella straordinaria capacità d’incassare sofferenze, mettersele alle spalle e gettarci sopra una spugna, anche a quelle più vive e recenti. L’uomo forgiato a Dunblane, al pari di campionissimi del passato e del presente come Federer, Djokovic e Nadal, ci riesce in maniera naturale, accompagnato dall’amore e dal rispetto verso lo sport e soprattutto dal divertimento, non il peso, che trae dal battagliare anche per ore su quel terreno di gioco.
Adesso il terzo turno contro Roberto Bautista Agut, che agli Australian Open ha come miglior risultato i quarti di finale raggiunti nell’edizione del 2019. Quella cavalcata si aprì proprio contro lo scozzese, che perse i primi due set, vinse i successivi due tie-break e capitolò in maniera piuttosto netta nel quinto e decisivo parziale. Dopo quella sconfitta andò in scena la conferenza stampa più dura fino ad oggi per Murray. Le lacrime, la seconda delle due operazioni all’anca in orizzonte, la convinzione di aver disputato una delle ultime partite in carriera: più di un indizio che il sipario stesse calando prematuramente sull’uomo capace d’insinuare dubbi e pensieri nella testa dei tre giocatori più forti di sempre.
Una storia nella storia, un altro motivo di fascino per gustarsi la partita contro l’iberico che, al pari del britannico, fa della capacità di muoversi e stare in campo e della sagacia tattica i suoi punti di forza. Le quotazioni dell’inglese sono inevitabilmente in ribasso. Dipenderà tutto da quanti argomenti avrà a disposizione dopo quasi undici ore di tennis all’attivo negli ultimi quattro giorni. Ci proverà come sempre, limitato da un’anca di metallo ma, a fare da contraltare, un tennis ed un cuore di titanio, vere e proprie pietre miliari del suo credo. Soffri, combatti, divertiti. In tanti ci provano. Pochissimi, tuttavia, riescono ad incarnare e ad essere meritevoli di diffondere questo vangelo. Tra questi, in prima linea, c’è Sir. Andy Murray.
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