Rafael Nadal e le vittorie agli Us Open come metafora dei cicli della vita. Infortuni, rinascite e trionfi suggellate a New York in una continua girandola con cadenza di tre o quattro anni dal 2010. Una delle differenze sostanziali tra l’attuale cultura occidentale e quella orientale è riferita all’idea di tempo che ne hanno le religioni fondanti. Nel contesto biblico è presente la concezione del tempo procedente in senso lineare, dove lo svolgimento della storia è irreversibile e quindi senza possibilità di ritorno. Per la filosofia indiana e buddhista invece lo scorrere del tempo è associabile all’immagine dei cicli: l’universo come un continuo prodursi e disfarsi, in sequenza eterna ed infinita. A voler mettere leggermente il naso dentro quest’ultimo argomento, secondo le dottrine indù, a livello di cicli cosmici, noi ci troveremmo nel periodo detto Kali-Yuga. La quarta fase di un ciclo più lungo chiamato Mahâ-Yuga. L’idea rimane sempre quella di periodi segnati da azioni che in maniera appunto circolare si susseguono attraversando nel loro percorso punti cardine sempre ben distinguibili.
In queste teorie si può credere o meno ma di sicuro, pensando alla carriera dello spagnolo negli ultimi anni, è difficile non avere la suggestione o quanto meno, anche involontariamente, non associare le sue vicende all’immagine di cerchi che si aprono e si chiudono e che come elemento comune hanno gli Us Open.
La prima partecipazione assoluta è datata 2003. Tuttavia solo nel 2010 è arrivata la prima vittoria a New York che è corrisposta anche con il personale completamento del Career Grand Slam. Fu un anno sensazionale: vinse in scioltezza il Roland Garros e alzò la coppa anche sui manti erbosi di Wimbledon quando in finale batté il ceco Tomas Berdych. La stagione si rivelò quindi eccellente e Nadal chiuse naturalmente da numero 1 del mondo. Da quella tanto bramata vittoria negli Stati Uniti iniziarono i primi problemi. L’anno successivo si ricorda per il sorpasso in classifica per mano di un Novak Djokovic che proprio in quel periodo si tramutò in bestia nera dell’iberico. Nel 2012, subito dopo la sconfitta spartiacque contro Rosol al primo turno del torneo londinese su erba, Rafael è costretto a tirare il freno. La motivazione ufficiale è la “Sindrome di Hoffa”: infiammazione del tessuto adiposo collocato fra tendine e rotula. Quella lunga pausa si rivelò tuttavia importantissima per il suo rientro.
Nel 2013 tornato emotivamente carico e con una voglia di giocare a tennis inaudita passò 8 mesi a prendere a randellate gli avversari. Rase al suolo la concorrenza a furia di difese estreme e passanti di dritto. Quell’anno giocò 11 finali su 12 tornei disputati e neanche a dirlo arrivò in fondo anche a Flushing Meadows. All’ultimo atto dello slam USA incrociò il rivale serbo Djokovic con il quale aveva un conto in sospeso. Grazie a un servizio notevolmente migliorato riuscì a chiudere la pratica in 4 set e si aggiudicò così il secondo Us Open in carriera. Chiuse di nuovo la stagione da numero 1. Dopo un’annata del genere la sensazione comune a tutti gli appassionati del settore era quella di un Rafa tornato a splendere come ai bei vecchi tempi. Tuttavia, proprio da quella vittoria in America, Nadal iniziò ad abbassare il suo livello inciampando anche in alcune brutte figure. La cosa peggiore furono i problemi fisici che nuovamente tornarono a farsi sentire. Prima la schiena iniziò a scricchiolare, poi il polso lo costrinse ad un ulteriore stop. Il 2015 fu l’anno del rientro ma le sue prestazioni subirono un netto calo di rendimento. L’anno seguente ci furono altri infortuni e quindi ulteriori mesi fermo ai box. Quando hai 30 anni il rischio è di non tornare mai più.
Si arriva quindi all’anno corrente, il 2017, l’anno delle rinascite. Oltre alla divina resurrezione del rivale storico Roger Federer, anche Nadal dopo mesi di preparazione ritorna a giocare come nelle stagioni migliori della sua carriera. Finale a Melbourne, titolo a Barcellona, Monte Carlo, Madrid e Parigi. Un ritorno sul palcoscenico mondiale di fuoco. Il tutto suggellato dalla ritrovata prima posizione mondiale e dal recente titolo agli Us Open. La vittoria nell’ultimo slam dell’anno, come abbiamo potuto capire, è realmente la cartina tornasole del livello del gioco di Rafa. Questa vittoria si rivela quindi essenziale nel giudizio di una stagione giocata a ritmi alieni. La speranza e l’augurio è chiaramente che una annata come questa, così simile per andamento a quelle del 2010 e del 2013, non sia seguita da problemi fisici o malesorti di svariata natura. Perché ammirare lo spagnolo giocare così a tennis è uno spettacolo unico. E perché Nadal, dopo tutto quello che ha passato, proprio non se lo merita.
Deve essere difficile essere nei suoi panni. Essere arrivato, almeno negli ultimi anni, così tante volte in cima alla montagna per poi rotolare rovinosamente giù non perché incapaci di rimanere in piedi ma bensì per problemi di natura diversa e incontrollabili. Spesso si associa alla figura di Nadal quella di un guerriero e viene facile capire il perché: Rafa lotta da tutta la vita e per genetica lo continuerà a fare. Potranno tornare altri periodi difficili ma alla fine del ciclo il vincitore sarà sempre e comunque lui.
LE VITTORIE DI NADAL A NEW YORK E I CICLI DELLA VITA