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Dall’autobiografia di una leggenda dello sport a temi e interrogativi che riguardano, in un modo o nell’altro, ognuno di noi. “Un comune immortale” è lo spettacolo teatrale del 2022 di Alessandro Colombo e Filippo Capparella, che raccontano ed interpretano a modo loro “Open”, la storia di Andre Agassi. Si parte dalla vita del tennista americano che è stato numero 1 del mondo e si arriva a trattare temi universali, che spesso sono anche privi di una risposta. Ne abbiamo parlato con i due artisti.
Come nasce l’idea di “Un comune immortale”?
Alessandro Colombo: “Quasi per caso mi sono trovato davanti Open, l’autobiografia di Andre Agassi. Senza conoscere la sua storia ho letto il libro e ne sono rimasto profondamente colpito. Nella storia di una persona non comune, quasi immortale, ci sono aspetti che riguardano intimamente tutti noi comuni mortali. Circa tre anni dopo, durante il mio terzo anno di recitazione all’Accademia d’Arte Drammatica Nico Pepe di Udine, mi fu data la possibilità di lavorare ad un mio progetto personale: mi tornò subito in mente la storia di Agassi, ma perché volevo raccontarla? E in che modo? Sentivo la necessità di elaborare dal mio punto di vista la vita di Andre. Poi ho avuto un incontro artistico e umano con Filippo Capparella: Open ha scatenato in entrambi tante domande senza risposta che sono state determinanti per la realizzazione dello spettacolo. Ci siamo chiesti come si diventa numero 1, qual è il prezzo da pagare per diventarlo, se ne vale la pena o meno. Perché la storia di Agassi ci dice che diventare numero 1 ha un prezzo”.
Cosa sono la vittoria e la sconfitta per Andre Agassi?
Filippo Capparella: “Da quel che emerge nella sua autobiografia e nella sua storia sportiva, per lui la vittoria e la sconfitta erano due ossessioni costanti. Era ossessionato dalla voglia di vincere quanto tormentato dalla paura di perdere. Secondo me per Agassi la vittoria e la sconfitta sono due facce della stessa medaglia. Èuna concezione comune agli sportivi di alto livello, soprattutto in uno sport come il tennis che è estremo nel non concedere alternative alla vittoria e alla sconfitta. Il padre di Andre ripete: ‘Se vinci sei un vincente, se perdi sei un perdente. Non conta altro’. Chi ha fatto sport sa che non è così. Non sempre una vittoria corrisponde a una cosa positiva, non sempre una sconfitta corrisponde a una cosa negativa. Nel nostro spettacolo la vittoria e la sconfitta sono due poli stabili all’interno dei quali il viaggio dell’eroe si compie e all’interno dei quali si può formare un campione”.
Al netto delle vittorie, Agassi riesce ad essere felice?
Alessandro Colombo: “Penso che la storia di Agassi e del nostro spettacolo ci racconti che si può essere infelice anche dopo essere diventato numero 1 del mondo o dopo aver vinto Wimbledon. Il concetto di felicità forse non si lega alla vittoria, ma ad altro. Potremmo arrivare a chiederci cosa sia la felicità. Andre ci dice che le vittorie danno piacere e le sconfitte dolore, ma il piacere della vittoria è una gioia effimera che svanisce subito. Non basta, se non c’è qualcos’altro. E quel qualcos’altro ha a che fare con il rapporto tra Agassi e il tennis. Andre ha sempre odiato il tennis, si è sempre sentito in gabbia, ha sempre saputo di non aver scelto quella professione. Ma poi impara ad amarlo e così trova la sua salvezza. Quando non gioca più solo per vincere e per se stesso, ma per le persone a cui vuole bene, per i suoi figli, per sua moglie, per dare un esempio. Pensiamo anche alla sua attività benefica. La sua salvezza sta nelle motivazioni del perché facciamo qualcosa”.
Cosa emerge nello spettacolo del rapporto tra Agassi e il padre?
Filippo Capparella: “Il rapporto tra padre e figlio è il fulcro fondante dell’intera drammaturgia di ‘Un comune immortale’. Noi parliamo di tennis, di sport, di come si diventa un campione: sono tutti pretesti per poter trattare temi universali che toccano ognuno di noi nella nostra zona più intima. Il loro rapporto era costellato da una serie di conflitti: il padre vuole plasmare il proprio figlio a sua immagine e somiglianza come fosse una sorta di Dottor Frankenstein che vuole plasmare una creatura alla quale addossare tutti i rimpianti della sua vita. Vuole puntare sul cavallo e pretende che sia vincente. Nello spettacolo questo rapporto diventa una metafora per le aspettative che i padri hanno dei figli e più in generale che la società ha nei confronti di ogni singolo individuo”.
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“Il tennis è in realtà anche un pretesto per parlare delle dinamiche che possono innescare gli sport competitivi, che sono solo la punta dell’iceberg di una società basata sulla competizione e sul successo, e su cui penso sia importante riflettere”. Spiegaci questa riflessione.
Alessandro Colombo: “Nel tennis e nello sport il risultato è fondamentale. Conta vincere. Questo concetto è radicato in tutta la società, a partire dalla scuola: conta più il voto che hai preso rispetto a ciò che hai imparato. Così cresciamo e siamo presi dal voler ottenere il risultato, il successo, quello che vogliamo. Ma il tennis ci insegna che per vincere una partita devi prima vincere un punto, poi quello successivo. Così vinci un game, poi un set, poi una partita, poi altri match. Ritengo che il tennis sia l’arte della presenza, del qui ed ora. Se non sei presente, non vai avanti. Stessa cosa il teatro: l’arte della recitazione è l’arte della presenza. Così come la vita: bisogna essere presenti per riuscire a vivere il meglio possibile. Il tennis è una grande metafora della vita”.
Come vive Agassi il sottile equilibrio tra la pulsione verso l’autodistruzione e la ricerca della perfezione?
Filippo Capparella: “Peter Brook diceva che per trovare la pianta che stai cercando devi aprire la porta di casa, perderti nella foresta e compiere il viaggio per poi scoprire che la pianta che stai cercando cresce proprio a fianco alla porta di casa, ma a quel punto la coglierai con la consapevolezza del viaggio. Questa metafora secondo me ha molto a che fare con il dualismo tra autodistruzione e perfezione, sia nell’arte sia nello sport. Per tendere alla perfezione bisogna sempre passare per l’autodistruzione e per una sorta di ambientamento e di annullamento di se stessi. Perché il talento aiuta, ma è anche un fardello pesantissimo da dover portare. Non a caso Agassi, arrivato a zero, rinasce dalle proprie ceneri come una fenice”.
Cosa può insegnare questa storia ai genitori di bambini che praticano sport?
Alessandro Colombo: “Il nostro spettacolo non ha la pretesa di insegnare qualcosa o di fornire risposte, ma piuttosto quella di dare domande con cui lo spettatore può confrontarsi. La storia di Agassi fa capire l’importanza dell’attitudine psicologica nel tennis, nello sport e nella vita. Un’attitudine psicologica può essere funzionale o disfunzionale alla propria attività. A inizio carriera Andre era un grande professionista, era ossessivo, non tollerava l’errore, doveva per forza colpire la palla alla perfezione. Come gli diceva il padre quando era piccolo. Quando poi conosce il suo coach, il grande Brad Gilbert, fa un grandissimo click. L’allenatore gli dice di buttare semplicemente la palla dall’altra parte della rete: ‘Se ci stai con la testa, con il talento che hai vinci sempre. Se non ci stai con la testa, nonostante il tuo talento perdi’. Il talento è sopravvalutato nella nostra società, mentre le parole dette a una persona che cresce sono fondamentali. Come quando Gilbert dice: ‘Non devi essere il numero 1, puoi permetterti di essere imperfetto’ e ad Agassi si apre un mondo”.
Qual è il messaggio dello spettacolo sui concetti di vittoria e sconfitta nella vita?
Filippo Capparella: “Non penso ci sia un messaggio né una morale o un punto di vista. Noi vogliamo parlare di temi universali e i temi universali sono sempre ambigui e controversi in base a chi li ascolta. Vogliamo raccontare una storia: la magia che contraddistingue il teatro sta proprio in quello che il pubblico recepirà, il rapporto tra quello che accade in scena e gli spettatori. Raccontiamo la storia di una persona che ha voluto con tutto se stesso essere il numero 1 ed è stato il numero 1, ma a quale prezzo? Non vogliamo rispondere a cosa voglia dire vincere o perdere, ma farci delle domande: ‘Cosa vuol dire vincere? Cosa perdi quando vinci? E cosa vinci quando perdi?’”
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