Non è la prima volta che mi capita di intervistare Alessandro Motti (top 100 di doppio nel 2009) ed è sempre un piacere fare due chiacchiere con un grande appassionato di sport, sempre disponibile e mai banale nelle risposte.
Si vocifera che tu fossi compagno di classe di Kobe Bryant, cosa c’è di vero?
“Ho giocato a Basket nella Pallacanestro Reggiana fino ai 15-16 anni (giocavo già anche a tennis ma il mio sport principale era il basket) e lui si trasferì a Reggio Emilia quando suo padre, Joe Bryant, venne a giocare da noi. Io ero un anno più piccolo ed abbiamo fatto due anni di Scuole Medie nello stesso istituto (non eravamo compagni di classe) e poi lo vedevo tutti i giorni a Basket: lui giocava con i 1978, io con 1979. Non eravamo super amici in quanto a quell’età un anno di differenza conta molto ma capitava di parlare insieme delle rispettive squadre o delle partite”.
Ti ricordi qualche aneddoto particolare sulla permanenza di Kobe a Reggio?
“Kobe aveva il privilegio prima delle partite del padre di fare qualche tiro a canestro… e tutti erano convinti che non sarebbe diventato forte come il papà!”.
Siete rimasti in contatto in qualche modo?
“Quando è scaduto il contratto del padre, finite le Scuole Medie, sono rientrati negli Usa e ai tempi non c’erano i social, non c’era WhatsApp quindi era inevitabile che i rapporti si perdessero: avevamo qualche notizia tramite i suoi amici più intimi come Christopher Ward e poi ce lo siamo ritrovati in NBA”.
Già ai tempi delle giovanili era un fenomeno?
“Quando era da noi giocava bene ma era abbastanza egoista: aveva difficoltà a passare la palla e faceva 30 punti a partita però nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbe diventato così forte. Suo padre Joe a Reggio Emilia era un idolo, numero 19, miglior giocatore del campionato e per tutti era solo il figlio di Joe”.
A livello di integrazione come era la situazione: oggi siamo abituati alla società multietnica ma all’epoca magari era più difficile.
“Nessun problema, noi a Reggio eravamo abituati ad avere gli americani in squadra e quindi per noi Kobe non era un “ragazzino di colore” ma solo “il figlio di Joe”.
Chiuso il doveroso capitolo Kobe, cosa combina Alessandro Motti? Un figlio piccolo, attività da coach avviata e quella professionistica che sembra chiusa.
“Ad inizio dell’anno scorso ho fatto un accordo per alcune settimane per seguire Julian Ocleppo, ci siamo trovati bene ed abbiamo deciso di andare avanti: cerco di godermi il figlio il più possibile quando sono a casa”.
La tua carriera da giocatore quindi si può considerare finita?
“Nemmeno per scherzo! Ho chiesto ed ottenuto la classifica protetta (178 in doppio) per un problema al polso e quest’anno voglio ricominciare”.
Come è cambiata la tua vita passando da giocatore a coach?
“Più o meno la vita è la stessa, anzi ora viaggio più di prima! È molto diverso l’approccio perché da giocatore quando volevo ottenere un obiettivo sapevo cosa dovessi fare per raggiungerlo, ora invece devo convincere il mio giocatore a fare determinate cose, non dipende più solo da me”.
Oltre a Ocleppo, segui altri giocatori?
“Sono appena tornato da Monastir dove ho seguito Andrea Guerrieri, che si allena a Reggio Emilia (non con me, ma se riesco ad incastrarmi cerco di seguire sia lui che Ocleppo)”.
Stai investendo anche sulla tua formazione da coach?
“Certo, quest’anno sto facendo anche il corso straordinario per diventare Maestro (avevo solamente il primo grado)”.
Programmazione da coach/giocatore delle prossime settimane?
“Ocleppo andrà ad un Challenger in India oppure ad un 25k in Inghilterra, poi Challenger di Bergamo e 25k di Trento: dal punto di vista dei viaggi non è cambiato praticamente niente. Ho più difficoltà dal punto di vista atletico pur facendo tanta palestra perché mi è capitato di stare fermo senza giocare per periodi di 4-5 giorni e anche se il tennis non ne ha risentito, il fisico mi ha mandato qualche segnale”.