Amarcord

Internazionali BNL d’Italia, quando a Roma vincevano gli yankee

Jim Courier - Foto Ray Giubilo

Gli Stati Uniti d’America e gli Internazionali Bnl d’Italia maschili: un amore mai pienamente sbocciato, che ha vissuto però un’intensa passione nei primi anni 90, quando per tre primavere, è il caso di dirlo visto il periodo in cui si giocano, sembrò che i padroni di casa del Foro Italico fossero proprio i ragazzi a stelle e strisce. Certo, penserete, in quegli anni, a cavallo tra gli ’80 e i ’90, lo strapotere americano aveva contagiato, ancora una volta, il mondo del tennis, facendo sì che leggende del calibro di Jimmy Connors e John McEnroe venissero rimpiazzate da talenti purissimi come Agassi e Sampras, e campioni quali Courier e Chang; oggi, tanto per dire, gli statunitensi farebbero follie solo per un giocatore del livello di questi ultimi. Nonostante ciò, quello tra gli USA e il Foro non è mai stato un legame scontato. Probabilmente, gli yankee non hanno mai trasferito tutto il loro amore per l’Italia e la sua città eterna, depositaria della magia da Dolce Vita da cui Hollywood ha sempre tratto spunto, ai campi da tennis tiberini. E questo, semplicemente per via della loro tipica diffidenza per tutto ciò che in ambito sportivo non venga organizzato in patria oppure alla loro maniera. Si sa, se c’è una cosa che si può rimproverare agli americani più che ad altri è quella di sentirsi spesso e volentieri i veri portatori dei valori e delle migliori vesti delle attività in cui si impegnano. Nel tennis, per esempio, non hanno mai considerato la terra battuta, imprescindibile in Europa, come superficie di gioco primaria dove far crescere i propri talenti o giocare i propri tornei, e quando l’hanno fatto hanno voluto ovviamente distinguersi dai “cugini”, sviluppando campi con una miscela diversa dal nostro “mattone tritato”, di colore verde e con caratteristiche ibride tra l’erba e la terra rossa, le due superfici tradizionali del nobile sport. Sulla terra verde ci hanno anche organizzato gli US Open, in quella fase di transizione tra l’erba e il cemento che andò dal ’75 al ’77. Emblematici del rapporto conflittuale tra statunitensi e terra battuta sono i loro miseri 4 trionfi nell’era Open (dal ’68 in poi) al Roland Garros, dato che diventa ancor più significativo se guardiamo l’albo d’oro di Wimbledon e degli Us Open, in cui nello stesso lasso di tempo troviamo 15 edizioni targate USA ai Championship e ben 19 nello Slam di casa, giocato tra Forest Hills e Flushing Meadows (in entrambi i tornei sono gli stessi 7 giocatori ad aver vinto quelle edizioni). Per queste ragioni, innumerevoli sono stati i casi nella storia in cui giocatori americani, anche di prima fascia, decidevano di saltare la stagione sulla terra rossa europea, di cui gli Internazionali sono snodo fondamentale, o parte di essa. Con queste premesse è facile intuire che le vittorie statunitensi nel nostro torneo più importante hanno sempre avuto un sapore speciale. Le bandiere a stelle e strisce scarseggiano anche nell’albo d’oro delle 72 edizioni dello storico torneo: 7 le vittorie in era Open, conquistate da 5 giocatori diversi. I primi trionfi risalgono ai successi di Vitas Gerulaitis, che si impose prima nel ’77 sul quarto moschettiere della nostra vittoria in Davis Antonio Zugarelli, poi nel ’79 su Guillermo Vilas, un mostro sacro della superficie argillosa. Nell’83 fu invece Jimmy Arias ad alzare la coppa al Foro, uno dei pochi veri terraioli americani se consideriamo che vinse tutti i suoi 5 titoli su terra battuta, di cui 3 in terra italica. Dopo due finali perse, una da Aaron Krickstein nel ’84 e l’altra dall’appena diciannovenne Andre Agassi nell’ 89, a riportare in auge la potenza USA ci pensò Jim Courier, il “boscaiolo” di Sanford, Florida, che fece doppietta nel ’92-’93. Courier è stato probabilmente lo statunitense più forte nell’era Open su terra battuta, superficie su cui le sue incredibili doti atletiche e agonistiche venivano esaltate, tanto da portarlo a calpestare trionfalmente, per due volte consecutive, quella del campo centrale del Roland Garros, in quel triennio per lui magico che andò dal ’91 al ’93, che lo vide scalare la vetta del mondo del tennis professionistico e impadronirsene per 58 settimane. Coetaneo di Agassi (classe ’70) e come lui allievo di Nick Bollettieri, arrivò agli internazionali del ’92 da n° 1 del mondo e campione in carica degli Open francesi e australiani. All’ombra delle statue non deluse le attese e sfoggiò ancora una volta la sua ferocia di attaccante da fondo campo con colpi di scuola USA; Il suo atletismo era strabiliante e gli avversari soccombevano alle sue randellate di dritto, quel dritto più unico che raro con un’apertura così breve da non far credere alla forza che ne scaturiva, merito di quella poderosa frustata che Jim impartiva alla palla con l’avambraccio. Per alzare il trofeo dovette fronteggiare una serie incredibile di specialisti del rosso, quelli che il suo maestro Bollettieri, che a lui preferì sempre Agassi, chiamava con sprezzo “ratti da fango”. Iniziò la settimana collezionando senza fatica gli scalpi di Thomas Muster e degli spagnoli Francisco Clavet e Sergi Bruguera. Ai quarti cedette il primo parziale del torneo ma eliminò in rimonta la sorpresa argentina Christian Miniussi; in semifinale, si fece sfilare ancora il primo parziale prima di azzannare inesorabilmente la preda, il tedesco Carl-Uwe Steeb, con un netto 6-1 6-2 che gli permise di raggiungere l’ultimo atto, in cui a contendergli il titolo fu l’ennesimo iberico, Carlo Costa, la sorpresa del torneo. Lì, dopo un primo set lottato e vinto al tie-break, fu ancora ineguagliabile in resistenza e costanza, e vinse i successivi due parziali 6-0 6-4. “Big Jim” aveva però già assaporato le sensazioni di trionfare al cospetto delle statue romane: nell’89 aveva infatti vinto il torneo di doppio, formando una coppia di teenager da pelle d’oca con Pete Sampras. In generale poi, Il feeling con l’Italia il rosso di Sanford lo ha sempre avuto, si consacrò infatti come giovane stella del tennis mondiale anche da noi, nel trofeo Bonfiglio dell’87. Un mese dopo quegli Internazionali del ’92, a neanche ventidue anni, rialzò nel cielo di Parigi la mitica Coppa dei Moschettieri, confermandosi così il numero 1 del circuito e il re della terra battuta. La difesa del titolo nel ’93 fu, forse, meno problematica per Courier, che arrivò questa volta agli Internazionali da seconda testa di serie alle spalle di Sampras. Dopo aver battuto ancora Sergi Bruguera in due set nei quarti, fece suo il derby con Michael Chang in semi, rifilandogli un 6-0 nel set decisivo. A quel punto, tutti gli appassionati si aspettavano il gran epilogo tra i primi due giocatori del mondo, ma vennero sorpresi, perché Pistol Pete dovette rinunciare ancora alla prima finale romana, a causa di uno spilungone croato di nome Goran Ivanisevic, sesta testa di serie quell’anno. La domenica fu ancor più a senso unico di quella dell’edizione precedente dunque, con Ivanisevic che nulla poté contro il martello pneumatico statunitense, che si impose nettamente per 6-1 6-2 6-2. Un mese dopo quell’incontro, ancora da favorito del Roland Garros, Jim perse l’occasione di portarsi a casa il terzo titolo consecutivo. Bruguera si prese infatti un’ amarissima rivincita sull’americano, che perse inaspettatamente al quinto set la sua penultima finale slam.

Passò un anno, e nel ’94 arrivò una di quelle edizioni del Masters romano che rimarranno impresse nella memoria degli appassionati: a suggellare il potere USA nella città eterna ci pensò finalmente Pete Sampras che, dopo due semifinali perse nel ’92 e ’93, arrivava al Foro Italico da numero 1. Tutti però, compreso lui, sapevano bene che la concorrenza così agguerrita e specializzata alla superficie avrebbe reso un suo successo alquanto improbabile. Come noto, il gioco dell’americano di origine elleniche non ha mai trovato terreno fertile sulla superficie più lenta, dove il suo servizio devastante perdeva un po’ di efficacia e il suo rovescio a una mano era più facilmente attaccabile: nella bacheca stracolma di successi, il nativo di Washington DC vanterà a fine carriera soltanto 3 successi su terra battuta, sui 64 totali. Nonostante ciò, in quella settimana di maggio, forse perché la superficie era stata velocizzata o forse per qualche favorevole congiunzione astrale, tutto funzionò a meraviglia per Sampras, che migliorò match dopo match, concedendosi anche qualche rischio nella prima parte del torneo. Eliminò Krickstein, Alex Corretja, Andrej Cesnokov e Andrea Gaudenzi, spintosi fino ai quarti di finale per la gioia degli italiani. Semifinale e finale furono invece una passeggiata: annientò prima il ceco Sláva Doseděl, poi un certo Boris Becker, con il quale diede vita a una delle finali più anomale della lunga storia del torneo, perché giocata tra due esponenti del puro attacco, e perché si rivelò a sorpresa una delle più dominate, soprattutto in considerazione del livello dei pretendenti. Pistol Pete stritolò il teutonico fin dall’inizio nella sua morsa, fatta di attacchi fulminei e passanti fantascientifici, tanto da far provare compassione per Becker ad Adriano Panatta, che commentava il match per la tv insieme a Giampiero Galeazzi. Il primo set si chiuse in un attimo, 6-1, con il tedesco in totale confusione. Il biondo lottò di più nel seguito, ma dovette cedere lo stesso secondo e terzo parziale a un Sampras perfetto, che seppe alternare magistralmente attacchi da fondo campo a discese a rete e riuscì a imporsi nettamente anche col rovescio. In un’ora e 51 minuti si arrivò al suo proverbiale smash al salto che chiuse i giochi con lo score finale di 6-1 6-2 6-2. Becker, a fine partita dichiarò: “Credo che ora come ora sia un giocatore imbattibile: non gioca a tennis, vola sul campo. Credo sia il giocatore più forte contro cui io abbia mai giocato in vita mia..“. Un’uscita che ricorda quando Larry Bird, dopo un’ epica serie di playoff tra Bulls e Celtics nell’86, disse di aver visto Dio travestito da Michael Jordan. Pete Sampras non arrivò più in finale al Foro italico, né in uno dei grandi tornei su terra battuta, ma quella rimarrà sicuramente nella memoria come una delle sue partite migliori, in una finale probabilmente irripetibile per le caratteristiche dei contendenti. Da quel momento ci vorranno altri 8 anni per avere uno yankee in finale a Roma: è il 2002, e il kid di Las Vegas Andre Agassi, ormai trentaduenne, stupisce ancora tutti, guadagnandosi l’ultimo atto del torneo dopo 13 anni dall’ultima volta quando, ancora teenager con chioma mohawk, si fermò a un solo punto dal trionfo contro lo specialista argentino Alberto Mancini, fresco vincitore di Monte Carlo; una partita che poi, nella sua autobiografia “Open”, dirà di non avere idea di come abbia perso. Dopo, nella sua fulgente quanto travagliata carriera, una serie di assenze o eliminazioni precoci a Roma, fino a questa edizione, in cui arriva dopo aver vinto a Miami battendo Roger Federer. A quel punto della carriera, “la terra non più per me” pensava Andre, ormai quasi rassegnato a non poter più vincere gli Open d’Italia. Nel suo libro, racconta che proprio a quegli Internazionali il suo coach di allora Darren Cahill gli fece provare delle nuove corde che potessero favorire il suo tennis in quella fase finale di carriera, in un’ epoca in cui la tecnologia dei materiali aveva fatto passi da gigante, consentendo ai giocatori di imprimere alla palla un topspin mai visto prima. Agassi provò, scettico, la nuova corda in poliestere sulla sua Head, al posto della ProBlend da cui non si era mai staccato, che “non si rompe mai, non perdona, ma non imprime nessun effetto. È come colpire la palla con il coperchio di un bidone della spazzatura.” Ebbene, si trovò subito alla grande e col nuovo attrezzo riuscì ad ottenere quel maggior controllo della palla che lo aiutò a contrastare l’incedere del tempo e a giocare al meglio i suoi colpi, che sulla terra romana si riveleranno letali per chiunque: “In una sessione di allenamento, non sbaglio una palla per due ore. Poi non sbaglio una palla per il resto del torneo. Non ho mai vinto gli Open d’Italia prima d’ora, ma li vinco adesso, grazie a Darren e alla sua corda miracolosa.” (cit. da “Open”). Questo il suo ricordo di quell’edizione, in cui fu una vera macchina da guerra: in un’annata straordinaria per la moria di teste di serie nei primi turni, con le prime 8 (Haas escluso) estromesse tra primo e secondo turno, Agassi sconfisse in quest’ordine Nicolas Kiefer, Michel Kratochvil, Agustin Calleri, Albert Costa e Jiří Novák, senza cedere nemmeno un set. Si arrivò alla domenica, e il destino mise di fronte due dei migliori talenti mai usciti dall’Academy di Nick Bollettieri: il tedesco Tommy Haas, ventiquattrenne in ascesa e n° 7 del mondo, e Agassi appunto, 9° nel ranking e nel bel mezzo dell’ultima di quelle fiammate che hanno caratterizzato la sua spettacolare carriera fatta di salite e discese. Come sottolineò Gianni Clerici sulle pagine di Repubblica il giorno dopo, le difficoltà del tedesco dal meraviglioso rovescio a una mano furono umane prima che tecniche, Haas era infatti messo di fronte a chi aveva sempre guardato con venerazione, a un modello quasi ineguagliabile di cui provare a seguire le orme. La finale fu dunque senza storia, proprio come quelle che anni prima giocarono il suo eterno rivale Pete Sampras e il compagno di academy Courier: 6-3 6-3 6-0 in meno di due ore, con il buon Tommy incapace di resistere ai colpi penetranti e anticipati dell’americano, i cui piedi si muovevano in costante attrazione della linea di fondo, come da abitudine. Andre Agassi vinse gli Internazionali d’Italia, quando ormai nessuno ci credeva più, arricchendo la bacheca del 52° titolo (arriverà a 60). Finì in seguito quella stagione da numero 2 del mondo, per poi, a inizio 2003, conquistare il suo ottavo e ultimo slam a Melbourne.

Sono passati 14 anni da quell’ultima vittoria a stelle e strisce al Foro Italico, e pare proprio che bisognerà attenderne ancora diversi per poter assistere a un altro trionfo del genere. La generazione d’oro del tennis USA, capace di sfornare Courier, Sampras e Agassi, sembra un lontanissimo ricordo, ma qualcosa inizia finalmente a muoversi, di nuovo, e chissà che tra 20 anni, in un articolo nostalgico come questo, non verranno ripercorse le gesta romane di Taylor Fritz, Jared Donaldson o Frances Tiafoe.

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