Andy Murray ha conquistato per la prima volta in carriera il Masters 1000 sulla terra rossa di Roma, battendo Novak Djokovic per 6-3 6-3. Per la prima volta il britannico batte il serbo sulla terra.
Ci sono stati periodi nella storia del tennis in cui all’epiteto “primier nel Globo” non s’associava per intrinseca necessità – prescindendo dunque da superfici, temperature, età, psicologie – il concetto di “super favorito per qualunque incontro in qualsivoglia superficie egli vada a disputare”.
Poi però è giunto Novak Djokovic e questa associazione ha assunto la connotazione dell’ineluttabilità. Negli ultimi anni il frustatore di Belgrado sembra aver instaurato una dittatura che, se poco o nulla concede ai rivali alto-quotati (non prima “di 14 set fa” ne concedeva uno a Nadal; degli ultimi 7 incontri con Federer ne ha intascati ben 5, concedendo solo quelli che non recassero incisa nella titolazione la marca Slam), le uniche boccate d’aria dispensate a fin di promuovere un’idea di libertà e ricambio si sono manifestate nelle inopinabili sconfitte contro giocatori sicuramente talentuosi ma verosimilmente non in grado di assumere su di sé l’arduo compito della Rivoluzione.
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E’ così che le sue due sole sconfitte stagionali (contro Jiri Vesely a Montecarlo e contro Feliciano Lopez a Dubai) sono parse a tal punto eccezionali da non destar neppure troppo scalpore. Perché uniche, non destinate a cambiare in modo rilevante il corso degli eventi.
Ed è con queste premesse che il numero uno al mondo alias super-favorito si appresta a disputare la sua settima finale in suolo italico, avendo trionfato già 4 volte.
Il suo avversario è l’ufficioso (ma ufficiale da domani) numero 2 nella classifica mondiale, lo scozzese Andy Murray. Il quale, se non si discosta poi molto dall’andamento generale di cui sopra (23 a 9 i precedenti a favore del serbo), giunge a questa finale con tutta la freschezza psico-fisica del caso (4 match vinti senza nemmeno intravedere l’ombra di un set decisivo), nonché una oramai sempre più consolidata familiarità con la polvere tritata di mattone.
Esattamente una settimana fa si disputava a Madrid una finale impersonata dagli stessi due interpreti. A precederla c’era una sconfitta in meno da parte del talento di Glasgow, il che sembra far intendere che il destino scozzese sia imperniato sulla sudditanza, sull’indipendenza negata. Il giogo della monarchia pare non volersi sciogliere.
Ciò che però potrebbe andare a favore di Murray nel giorno del suo genetliaco, è il fatto che a differenza sua il serbo ha dovuto spendere notevoli energie fisico-mentali nei match precedenti, concludendo solo dopo le 23 della notte di ieri la sua “tri-oraria” semifinale contro il nipponico Nishikori.
Forse è poco cui appigliarsi per lo scozzese, ma a confortarlo potrebbe giungere l’idea che il primo set ufficiale disputato in carriera contro il serbo si risolse in suo favore per 6-1, e la superficie era nientepopodimeno che la terra battuta, terreno su cui dalla semifinale di Roma 2011 al Roland Garros dello scarso anno alla finale di Madrid di domenica scorsa (ora sì, si può aggiungere quest’incontro anche per supportare Murray) il serbo ha sempre dovuto fornire prestazioni di primissimo livello che, viste le fatiche dei giorni precedenti, non è detto riuscirà a performare anche quest’oggi.
Sotto un cielo presago di cattivi umori, albeggia l’incontro con Murray che tiene il servizio senza particolari patemi e Djokovic che ottiene la parità non prima di aver annullato 3 palle break. La sequenza si ripete, ma Murray questa volta sfrutta le sue occasioni (e i nervi tesi del serbo) issandosi sul 3-1 e mantenendo poi agevolmente il turno di battuta. Il match procede senza particolari sussulti fino a quando una delicatissima smorzata di Murray sigla la fine del primo parziale col punteggio di 6-3. Il serbo è apparso piuttosto nervoso e stanco, poco in controllo dei suoi colpi (14 errori non forzati) e financo della racchetta (che, sul 3-1 per lo scozzese, finisce tra gli spalti per le risa del pubblico e il warning da parte del giudice di sedia). Bene Murray, propositivo e intento a creare gioco, che con i suoi 11 vincenti dimostra caparbiamente di non ritenere la vittoria un irrealizzabile miraggio.
Un primo assalto serbo si manifesta nel secondo game dell’incipiente parziale, ma la tenacia di Murray sventa ogni pericolo di break, mantenendo in equilibrio il set. I segnali di ripresa del serbo continuano, alternandosi però a repentini scatti d’ira (costante è il rischio di auto-infliggersi una racchettata sulla caviglia superstite da ieri) e, soprattutto, all’ammirevole perseveranza da parte dello scozzese, esplicantesi in sinuose smorzate a fil di rete, accelerazioni improvvise e conseguenti chiusure di volo. Tra violente mazzate e parabole rallentanti il gioco, Murray ottiene il break proprio nel momento migliore del serbo, portandosi sul 4-2. Il leone serbo, messo alle strette, prova a ruggire ma Murray è un addestratore abile e scafato, in grado di ammansire la furia belgradese con classe e varietà. Sul 5-3 per lo scozzese, un’ingenuità di Novak nei pressi della rete in abbinata alle doti atletiche di un Murray pressoché perfetto consegnano al giocatore di Glasgow il punto decisivo dell’incontro, che termina con un duplice 6-3.
Col trionfo romano Andy Murray inserisce nel suo palmarès il dodicesimo titolo in un Masters 1000, secondo sulla terra battuta dopo il successo a Madrid dello scorso anno. Più che i 24 vincenti (a fronte di 19 errori non forzati), ciò che sorprende nella prestazione dello scozzese sono le molteplici forme con le quali li ha messo a segno.
Intelligente conduzione degli scambi, alternanza dei ritmi e nei tagli, un’insolita propensione ad ottenere il punto per via di sentieri rapidi (e spettacolari) rispetto alla consueta attitudine al logorio fisico dell’avversario (e pure suo).
Novak Djokovic chiude la partita con un saldo vincenti-non forzati di 15-23, troppo negativo per far fronte ad un Murray decisamente molto convinto nei suoi mezzi. Tra spalancamenti quadrati di bocca e recuperi da capogiro, uno dei luoghi in cui si è deciso maggiormente l’incontro è stata la vicinanza dei pressi della rete, spazio nel quale si sono spente al suolo smorzate pregevolissime da parte di entrambi i giocatori e soprattutto chiusure di volo che hanno visto lo scozzese prevalere nettamente sull’avversario (13 punti a rete contro gli 8 di Djokovic).
Quando a battere l’imperatore del tennis erano stati dei “semplici cavalieri erranti” non si era certo gridato alla Rivoluzione. Ma quando a scalfire il suo regno ci pensa il più papabile pretendente, quest’evento tutto sommato prevedibile non ha lo strano sapore dell’impresa, della novità?