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Nel raccontare l’ultima giornata alla Caja Magica, cercherò per quanto possibile di non farmi condizionare né dalle flessuose movenze di Shakira (che ha introdotto la finale sul Santana con un abbozzo di spettacolo durato il tempo di due canzoni, forse tre) e nemmeno dalle lacrime di Roberto Bautista Agut, schierato da Sergi Bruguera per il primo singolare a qualche giorno dalla scomparsa del padre, a cui il tennista di Castellon de la Plana ha dedicato la vittoria su Felix Auger-Aliassime alzando il dito e lo sguardo al cielo subito dopo l’ultimo colpo.
Alla fine ha vinto la squadra migliore, quella che schierava – ranking alla mano – la coppia di singolaristi più affidabili (se Bautista non avesse dovuto lasciare la squadra, probabilmente sia nei quarti che in semifinale non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di ricorrere al doppio decisivo), una dignitosa riserva come Carreno Busta e all’occorrenza due doppisti credibili (anche se poi nei momenti di difficoltà Bruguera ha preferito andare sul sicuro schierando l’incontenibile Nadal anche nei delicati supplementi con Argentina e Gran Bretagna). Se a questo aggiungiamo che gli spagnoli hanno giocato con il supporto di almeno diecimila spettatori ad ogni incontro, è facile intuire come i giallorossi fossero i veri favoriti di questo torneo che tanto ha fatto – e farà – discutere per le vicende attorno al campo ma che ha dispensato emozioni a piene mani sul piano tecnico, agonistico e umano.
Certo, per essere considerate da chi le organizza (ITF e Kosmos) una sorta di coppa del mondo di tennis, fa storcere il naso il fatto che almeno per due anni sarà la Spagna ad ospitare le Finals; checché se ne dica – e pur avendo scelto una superficie piuttosto veloce quale si è rivelato essere questo Greenset Grand Prix Cup – il fattore campo ha avuto la sua importanza ed è evidente che la soluzione più equa sarebbe rendere l’evento itinerante. Ma, come ricordava ancora ieri mattina lo stesso Haggerty (presidente della Federazione Internazionale), in un contesto complesso qual è quello attuale del tennis, occorre fare un passo alla volta e, finché non si troverà una strada comune con gli altri istituti, cercare di gestire al meglio ciò che si ha.
E quella a disposizione in questo momento della ITF è una risicata settimana a fine novembre in un calendario che ha già spremuto la maggior parte dei giocatori come limoni (non è un caso che tra i principali protagonisti di queste Finals vi siano stati tennisti reduci da infortunio – come Pospisil – o da periodi in cui avevano giocato poco a causa delle tante sconfitte – come il britannico Edmund); non molto, a dire la verità. Poi, se davvero in futuro si verificherà che le settimane diverranno due e si giocherà a metà settembre, ecco allora che le possibilità di trovare sedi adeguate in diverse località del mondo si moltiplicheranno e molti paesi potranno eventualmente beneficiare a turno del tifo amico.
Lasciando da parte la politica sportiva e tornando alle vicende del campo, queste Davis Cup Finals hanno confermato che dietro l’angolo c’è luce. E che luce! Al netto della discutibile figura rimediata rinunciando a giocare il doppio con gli Stati Uniti (in un momento della settimana in cui un punto, due set e dodici giochi a zero potevano avere il loro valore), il team canadese ha sopperito alle assenze di Raonic e Auger-Aliassime – quest’ultimo rispolverato per la finale ma in evidente deficit di forma – resuscitando nel gioco e nello spirito Vasek Pospisil e proiettando Shapovalov verso un 2020 da protagonista. Dopo aver conquistato l’anello NBA con i Toronto Raptors e gli US Open femminili con Bianca Andreescu, le “foglie d’acero” hanno tentato la clamorosa tripletta fermandosi solo al cospetto di una Spagna meglio attrezzata e più completa.
Un altro raggio di sole è quello che ha illuminato il cammino di Andrey Rublev. Chiamato a sostituire l’indisponibile Medvedev, è vero che ha giocato da numero 2 e quindi non ha dovuto affrontare i migliori (come invece è successo al compagno Khachanov) ma nei quattro singolari è stato tremendo e pure in doppio ha contribuito alla causa della Russia, ottima semifinalista. Come pregevole è stato il comportamento della Gran Bretagna, la più “squadra” in senso lato tra le ultime quattro, con un doppio vero (Skupski/Jamie Murray) a cui il capitano Leon Smith ha dato fiducia anche nell’inferno del Santana contro la Spagna dopo che i due erano stati determinanti nei due match del gruppo e tre singolaristi (Andy Murray, Edmund e Evans) che si sono alternati portando ciascuno un po’ di acqua al mulino britannico.
Per chiudere, due parole sull’Italia. Il sorteggio ha portato in dote agli azzurri uno spareggio casalingo contro la Sud Corea e quindi ampie possibilità di essere alla Caja anche l’anno prossimo. Se Berrettini e Sinner confermeranno i progressi (e magari in questi dodici mesi troviamo un paio di doppisti eccellenti), la squadra azzurra avrà le carte in regola per ben figurare anche a livello di risultati, dopo averlo già ampiamente fatto sul piano sportivo lottando fino a tarda notte contro gli Stati Uniti pur sapendo di essere già fuori dalle finali.
Per la sesta volta la coppa voluta 119 anni fa da Dwight Davis è nelle mani degli spagnoli. Forse con la vecchia formula non avrebbero vinto, magari perché Nadal non sarebbe stato della partita o perché – qualora avesse dovuto affrontare gli stessi avversari – con Gran Bretagna e Argentina avrebbe giocato in trasferta. Ma questa è la nuova Davis e, che piaccia o no, ci si dovrà abituare.
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