In una edizione degli Open di Francia caratterizzata dal cannibalismo di Rafa Nadal, vicino ma non vicinissimo alla sua miglior versione, e dalle concrete possibilità di vittoria di una Simona Halep che mai come ora meriterebbe il titolo, una menzione particolare meritano i malcapitati protagonisti rimasti a contendersi il trofeo di doppio maschile e femminile.
Si, perché se ci sforzassimo di dare uno sguardo ad entrambi i tabelloni noteremmo sicuramente qualcosa di atipico. Non è tanto la prematura caduta di alcune delle teste di serie (comunque inferiore rispetto agli anni passati), quanto la caducità della disciplina a far riflettere. Tanti, troppi singolaristi finiti lì più per caso che per altro, pronti a piantare i piedi su una diagonale e a spingere ininterrottamente in attesa dell’errore dell’avversario. Un onore trasformato in onere, da un cambio di tempi oltre che di vocali. I campioni, quelle veri, stanno iniziando lentamente a farsi da parte. Bopanna, Paes, Rojer, Petzschner (per il quale alzi la mano chi non ha provato una sorta di venerazione) stanno per superare (qualcuno ha già superato) i quaranta e non possiamo certo stare a chiedere loro di rispondere ad un servizio di Sock o di alzare un lob millimetrico ad Isner. La mano resta, sia chiaro, ma da sola può ben poco.
Stesso discorso vale per un circuito femminile ormai orfano di autentici totem della disciplina come Martina Hingis, Sania Mirza e Cara Black. Una ventata di novità non fa male, certo, ma a che prezzo? Prima della fine degli anni ottanta non esisteva affatto la carriera del doppista di professione. Si giocava, spesso bene, da entrambe le parti. Si giocava, ma soprattutto si vinceva. L’avvento improvviso di un tennis globale, la crescita esponenziale del numero di tornei e la più insana costrizione al mantenimento di standard qualitativi altissimi per tutto l’arco della stagione hanno spinto molti singolaristi a fare il punto della situazione e a chiedersi (spesso a malincuore) se non fosse il caso di reinventarsi. Troppo facile, allora, iniziare ad inquadrare i pochi superstiti come “i singolaristi che non ce l’hanno fatta”. Orrore e raccapriccio soltanto a pensarlo, prima che a scriverlo.
Il tennis è, o sarebbe bello che fosse ancora, una questione di estetica. Le risposte negli ultimi centimetri di campo di Djokovic, il tempo perfetto sulla palla di Murray, il dritto uncinato di Nadal sono quanto di più concreto possa esserci al mondo ma ahinoi, di estetico nel senso stretto del termine, hanno ben poco. Il complesso del Foro Italico aiuta perfettamente a comprendere quanto si stia affievolendo la fiamma. L’impatto visivo creato dalla folla ammassata per assistere ad una intensa sessione di allenamento della Sharapova, contrapposto alle poche decine di spettatori intenti a contemplare la simbiosi tecnico-emotiva di Juan Sebastian Cabal e Robert Farah sul campo accanto la dice lunga. E se quaranta minuti scarsi di bordate contro uno sparring “vendono” più dell’opera di quattro artisti della racchetta, il campanello d’allarme suona ancora più forte. Sarebbe il caso, allora, di iniziare ad attivarci e a ringraziare chi ancora fa qualcosa per evitare che tutto ciò scompaia irreparabilmente. Merci, monsieur Herbert.
Il nostro è un appello, una richiesta di aiuto quasi disperata. Che almeno in doppio si eviti di scendere a rete solo per stringere la mano agli avversari, triste conseguenza di una ormai perduta sensibilità piegata alla forza bruta del tennis di ultima generazione. La speranza, come noto l’ultima a morire, è che ragazzi dalle potenzialità straordinarie come Zverev, Shapovalov e Thiem scelgano l’India come meta per trascorrere la off season. Da quelle parti, sotto rete, ci sarà sempre qualcosa da imparare.