Il Centre Court di Wimbledon torna ai suoi piedi, il circuito lo riabbraccia definitivamente. Sì, Novak Djokovic è tornato ritrovando la vittoria in un torneo a dodici mesi dall’ultimo: era stata l’erba di Eastbourne a regalare l’ultimo sorriso del 2017 al serbo prima di salutare il circuito per sei mesi per risolvere i problemi al gomito. Il Djokovic visto in Australia e nei Masters 1000 americani aveva lasciato più di qualche punto interrogativo dando il là alle inevitabili sentenze affrettate. Nonostante i segnali di ripresa nella stagione sul rosso, in pochi però avrebbero pronosticato il ritorno in grande stile nel gotha del tennis.
Le mani sul quarto trofeo in carriera ai Championships, in realtà, le aveva già virtualmente messe dopo la sfida stellare con Nadal, quella che ha certificato le intenzioni di Nole di qui in avanti: mai aveva giocato dal rientro sul circuito una partita così lunga – seppur spezzettata in due atti – e intensa allo stesso tempo, con una continuità di gioco spaventosa. Una vera e propria finale anticipata perché, come ampiamente prevedibile, Kevin Anderson (nonostante un atteggiamento encomiabile) non aveva inevitabilmente smaltito le tossine delle 6 ore e 35 minuti della maratona con Isner: un atto conclusivo che, a pari condizioni fisiche, avrebbe potuto rappresentare comunque uno scoglio difficile per il serbo già in grande difficoltà nel 2015, quando fu costretto a rimontare due set agli ottavi per aggiudicarsi il suo terzo titolo a Church Road.
La resurrezione sportiva di Djokovic mette dunque un pizzico di pepe in più al Tour. Nel revival dell’eterna rivalità tra Nadal e Federer, Nole ha dimostrato ancora una volta di essere per il momento l’unico capace di mettere il bastone tra le ruote ai due totem. Aldilà di gusti personali e tecnici, il serbo è innegabilmente il terzo fenomeno assoluto dell’era moderna. Se la lotta sul GOAT continua ad appartenere agli altri due – almeno per il momento – va sottolineato come adesso il serbo sia ad una sola lunghezza, a livello Slam, dai 14 di Sampras (detenendoli tutti e 4 tra 2015 e 2016, il primo da Laver a riuscirci) e secondo nella classifica all-time dei Masters 1000. Un’impresa per chi avrebbe dovuto accontentarsi delle briciole, di partire in seconda fila e sperare in un passo falso di chi lo precedeva nel ranking. Con orgoglio e ferocia, così come nel 2008 dopo sette Major consecutivi appannaggio di Federer e Nadal, Djokovic ha interrotto a Wimbledon una striscia di sei consecutivi dei soliti due lanciando un chiaro messaggio: il Nole spento e mansueto visto nei primi mesi dell’anno faceva solamente parte di un processo di risalita, di inevitabili scivoloni e di tanta pazienza nell’ingoiare sconfitte amare, come quella nei quarti del Roland Garros contro Marco Cecchinato metabolizzata con una conferenza stampa flash di pochi minuti. Passo dopo passo, Djokovic ha sconfitto i propri demoni e adesso è sempre più artefice del proprio destino nei suoi incontri: dalle palle break nel quinto con Nadal ai cinque set point cancellati ad Anderson, senza mai concedere opportunità agli avversari come solo i grandi campioni ne sono capaci. Il ritorno in top-10, dopo essere anche uscito dai primi 20 dal 2006, è solo l’inizio: di qui in avanti non avrà alcun punto da difendere per il resto della stagione. Dopo essersi ripreso la scena a livello Slam, il progetto di risalita comprende anche il sogno del ritorno in vetta al ranking, dove si è accomodato per 223 settimane.