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Ai nastri di partenza delle Next Gen Finals 2017 ci sarà anche l’americano Jared Donaldson. Classe 1996, nel settembre del 2016 il New York Times l’aveva definito come il tennista dal successo “più improbabile, tra gli adolescenti americani” in rampa di lancio. A distanza di tredici mesi, adolescente non lo è più e, cosa più importante, non è più quello col futuro più incerto e improbabile, tra i ragazzi made in Usa.
Anzi, a livello di ranking è quello che viene prima, ben al di sopra di altri talenti maggiormente celebrati, Tiafoe e Taylor Fritz su tutti. “Sono consapevole del fatto che, se faccio il mio gioco ho sempre un’opportunità di vincere la partita”, dice lui. “Alla fine della giornata, ogni partita è un nuovo giorno, un nuovo capitolo”. Certo, è risaputo che il giovane Jared non è il più potente o imponente, né il più atletico, tanto meno il più talentuoso della nuova generazione. Non può contare su un servizio devastante come quello di Kyrgios, sull’eleganza di Zverev, sulla velocità che ha Tiafoe o sull’esplosività di Jack Sock. Fa tutto bene, ma non c’è niente di “facile”, cristallino o particolarmente accattivante nei suoi colpi. Deve lavorarsi ogni punto che ottiene, anche i suoi assi nella manica sembrano frutto di sforzo. Forse è proprio questa la sua maggiore capacità: la tenacia e la costanza. Nonché la capacità di trovare la via più semplice per vincere lo scambio. Mentre la motivazione di Kyrgios va e viene, o la concentrazione di Sock subisce alti e bassi, Donaldson si impegna in egual modo in ogni punto.
Se sei questo tipo di persona, impari a godere del fatto che per vivere devi per forza lavorare. Ecco spiegato il segreto della sua diligenza e caparbietà. Ecco spiegati tutti i chilometri corsi dentro al campo. Nonostante diverse sconfitte al primo turno, come tutti i nuovi professionisti che sfidano la realtà del circuito e cercano di stabilirsi devono fare, è ripartito a testa bassa dopo ogni sconfitta e si è spostato in lungo e in largo. A differenza di alcuni suoi colleghi americani, in primavera ha giocato interamente la stagione sulla terra rossa, qualificandosi per Madrid e Roma. Tutto questo lavoro ha cominciato a pagare maggiormente in estate, sui campi veloci. In generale, alla fine del suo 2017 sono diversi i buoni risultati che può vantare: l’ottavo di finale raggiunto al Master di Miami (il suo primo ottavo a livello Masters 1000), piazzamento replicato alla Rogers Cup di Montreal e superato col quarto di finale agguantato a Cincinnati; gli ottavi di finale giocati a Brisbane, Delray Beach, Eastbourne, Atlanta e Washington. Si aggiungono poi il terzo turno a Wimbledon (raggiunto dopo aver battuto, al secondo, Paolo Lorenzi) e il secondo agli Us Open. Per un totale, considerando anche i tornei Challenger, di 64 match di cui esattamente la metà, 32, vinti.
E c’è ancora tanto margine di miglioramento, di questo ne è assolutamente convinto. “Il fatto che una volta fuori dal campo abbia la consapevolezza di dover ancora lavorare su qualcosa, è positivo; se non avessi nulla da migliorare, allora sarei in difficoltà nello spiegarmi un’eventuale sconfitta. Ovviamente perdere è deludente. Ma è una lunga strada. Bisogna sempre lavorare e migliorare, presentarsi al torneo successivo, pensare a rifarsi l’anno prossimo, essere un giocatore migliore”. Difficile, continuando con questo atteggiamento, che il suo successo rimanga “improbabile” come sentenziato da qualcuno l’anno scorso.