Per molti Virginia de Martin Topranin è un nome familiare, lo è per tutti gli appassionati dello sci di fondo, lo è per chi la ricorda sul podio di coppa del mondo con la staffetta nel 2010. Lo è per chi quest’anno l’ha seguita in un crescendo di qualità nel Tour de Ski. Lo è per chi si è forse chiesto se sognava quando vedeva una ragazza dalla tuta azzurra andare più forte in alternato che in pattinato.
Virginia de Martin Topranin, però, è più di questo: è una ragazza che si scopre essere molto simile alla sua terra, le Dolomiti di Sesto sovrastanti Padola, quando le si parla: solare, gentile ed educata, ma anche profonda e riflessiva, eppure determinata. Lei è come i torrenti che scendono dal Comelico a metà primavera, dopo che le nevi su cui si è allenata per tutto l’inverno si sono sciolte e l’acqua ora scorre allegra e prorompente. Non è un’immagine facile da ottenere, perché tanti dettagli, forse contrastanti, la compongono, ma è in questa complessità che si mostra la nazionale azzurra di fondo ed è da questo ritratto sfaccettato che ne esce un personaggio continuamente da scoprire e capace di far emozionare.
Eppure per la giovane Virginia, lo sci di fondo è stato quasi un ripiego, per lei che cresciuta tra i cani da slitta di papà aveva iniziato con lo sci alpino. “A circa tre anni iniziai con lo Sci alpino, facevo discesa libera, ma non c’era ancora la seggiovia, solo lo ski-lift. Un giorno forse perché ero distratta, ero una bambina dopotutto, caddi malamente e presi così paura che non ci sono più voluta andare!” ci racconta con una risata: “ora peraltro lo adoro, ma quel giorno dissi a mia madre che non volevo più andarci, ho messo gli sci da fondo ed è cominciata così. Andavo benino, ma non è che mi facesse proprio impazzire i primi anni. C’erano cose che mi interessavano di più, però la compagnia era bellissima, nello sci club eravamo davvero affiatati e credo che proprio questo mi abbia fatto andare avanti.”
Poi piano piano il gioco si è trasformato in qualcosa di più, tanto da decidere di abbandonare la propria casa e la propria regione: “Crescendo sono arrivati i risultati e quindi chiaramente sono stata incentivata e la passione è cresciuta. Poi appunto ho deciso di andare al Liceo per gli sport invernali I. Bachmann di Tarvisio per coltivare questa passione senza lasciar da parte la scuola: a casa mia non sarebbe stato possibile, avrei dovuto fare una scelta, perché le scuole non erano troppo vicine e chiedevano troppo impegno anche solo nei trasporti che non mi avrebbe permesso di sciare ad alti livelli.”
Da allora ne ha fatta di strada, chilometri e chilometri sulle nevi di mezzo mondo, fino al Tour de Ski di quest’anno, in cui ha ottenuto il suo miglior piazzamento a livello individuale con un settimo posto nella 10km in tecnica classica della Val di Fiemme. La padolina ci ha raccontato la diversità di quell’evento rispetto al resto della coppa del mondo: “È incredibile, perché magari d’estate ci lamentiamo di due o tre lavori d’intensità di seguito, poi ora fai otto gare in dieci giorni e le ultime le fai anche meglio delle prime. È incredibile, anche io non capisco bene. Anzi si, è sicuramente una questione mentale.” E proprio riguardo l’importanza della mente in uno sport come il fondo, la de Martin ha descritto così l’ormai celeberrima scalata al Monte Cermis, l’assolo finale dell’unica gara a tappe della coppa del mondo: “è una gara durissima! Questo certamente posso dirlo, eppure non la annovero tra le gare più dure che ho fatto, perché innanzitutto c’è un tifo pazzesco ed è come se ti desse una spinta verso la cima, e poi ti senti un po’ un eroe, un piccolo gladiatore moderno, ed anche questo ti dà grinta per arrivare lassù.”
Ed è proprio l’aspetto mentale uno dei più importanti di tutti gli sport di resistenza: lo sanno i maratoneti, i nuotatori delle lunghe distanze, ma anche i fondisti, che per ore ogni giorno avanzano immersi nei propri pensieri, sovrastati dalla natura immensa e un po’ solitaria che caratterizza questo bellissimo sport. “Innanzitutto questo vale in gara, ma ancora di più negli allenamenti della off-season, in estate ed in autunno,” ci racconta con sincerità la ragazza veneta. “Stiamo tantissimo tempo sul mezzo, un sacco di ore all’anno. Forse non è paragonabile al nuoto, dove stanno sempre da soli con la linea nera in fondo vasca, ma tante volte ci si avvicina. È una costante parlare con se stessi, valutare le sensazioni, stare a contatto con la fatica… io credo che l’aspetto mentale stia lì, nell’abituarsi a quella sensazione ed alla fatica ed andare oltre, grazie alla mente.”
In tutto questo però la squadra diviene un qualcosa di essenziale, poiché solo il senso di gruppo riesce a far dimenticare la fatica, o forse meglio, a farla ignorare. Il gruppo diventa lo stimolo per migliorarsi ogni giorno e in uno sport come lo sci di fondo questo è più importante che altrove. “Per quanto mi riguarda, l’aspetto della squadra è fondamentale. E se per gran parte degli atleti è vero, per me lo è particolarmente. La staffetta ad esempio è sempre stata la mia gara preferita, ed è l’espressione massima di squadra per noi; vero che nella tua frazione sei individualista, ma corri per qualcuno, ed è un grosso stimolo per dare di più, tirar fuori quel qualcosa in più. Inoltre, siamo fuori casa per più di metà anno tra preparazione estiva e gare invernali, e siamo via sempre con la squadra. Diventa un po’ una seconda famiglia. Negli anni i migliori risultati li ho fatti sempre quando il team era bello, l’ambiente era bello e c’era intesa tra le varie parti del gruppo.”
Per lei poi c’è stata anche la difficile eredità improvvisa di una nazione che per decenni è stata sulla cima del mondo di questo sport e all’improvviso, ancora giovanissima, Virginia si è trovata sola.
“Ho fatto il primo anno in coppa del mondo quando c’erano ancora Marianna Longa, Arianna Follis e Magda Genuin, che hanno ottenuto tutte grandi risultati. L’anno prima erano andate alla grande alle Olimpiadi di Vancouver, l’anno ancora prima idem ai Mondiali di Liberec, dove le donne avevano fatto due medaglie. Ad Oslo, quando c’ero anche io, la Follis aveva fatto medaglia d’argento. Improvvisamente poi hanno smesso tutte allo stesso momento. Lì per lì io ero gasatissima, perché allenandomi tanto con loro avevo fatto il salto di qualità e pensavo che non sarebbe stato un problema il fatto che non ci fossero più. La realtà è invece stata un po’ diversa: non avere un traino come loro in allenamento è stato difficile per noi e non ci siamo allenate più a quei livelli; in secondo luogo, anche la spensieratezza e la tranquillità mentale di gareggiare sapendo che ci sarebbe stato qualcuno del nostro team nelle prime posizioni se ne è andata.
“Non siamo certo una nazione come la Norvegia, in cui quelle che arrivano in coppa del mondo hanno già dovuto duramente lottare in una selezione difficilissima, quindi per noi ci è voluto un certo tempo di maturazione; ma ora credo che il momento sia buono, perché sia qualche sprinter che noi delle distanze abbiamo superato quelle difficoltà iniziali ed abbiamo fatto un passo in avanti dal punto di vista della maturazione, anche psicologica.”
E parte fondamentale dell’armonia psicologica della de Martin è la certezza di avere altro nella vita oltre allo sci di fondo: dalla scelta di studiare a Tarvisio al liceo a quella di seguire i corsi all’università di Verona, dalla musica ai cavalli, fino alla scrittura.
“Dopotutto non posso farne a meno, perché a me serve il piano B. Non posso pensare che ci sia solo lo sci nella mia vita. Non c’è soltanto lo sport ed andare all’università, anche solo in primavera, mi fa sentire una persona ‘normale’ e questo mi piace un sacco.” E stesso vale anche per la chitarra, sua compagna inseparabile nei primi anni in giro per il mondo: “Avevo cominciato a studiarla e me la portavo in giro. Poi un po’ davo fastidio agli altri quando mi esercitavo!” aggiunge con una risata genuina. “Dopo un po’ ho capito che avrei dovuto rimandare a quando avrei avuto più tempo, ora mi porto con me altre passioni: ho sempre con me un’agenda dove poter scrivere. Mi piace molto scrivere e mi dedico a quello.”
Ma se fuori dalla neve la de Martin cerca di sentirsi ‘normale’, da sciatrice invece è un caso speciale, poiché figlia di una tradizione legata allo skating come quella italiana, lei è specialista dell’alternato. “Onestamente è una cosa innata, mi è sempre piaciuta di più la tecnica classica, perché nel pattinato pur sciando bene non rendo allo stesso modo. Questo mi piace un sacco perché gli scandinavi, che ‘comandano’ questo sport, sono molto più legati alla tecnica classica e questo mi porta a farmi notare di più da loro.”
Ma che cosa rende il lavoro degli italiani speciale e cosa riesce a far sì che un movimento infinitamente più piccolo di quelli scandinavi riesca a sfidarli? “Noi italiani lavoriamo tantissimo sui fondamenti di tecnica, soprattutto negli ultimi due anni con il nuovo staff ed è necessario farlo. Con la tecnica giusta risparmi tanta fatica. I giusti adattamenti sono cose spesso impercettibili, ma riguardano la frequenza, lo spostamento del peso del corpo sui piedi e sulle gambe, più avanti o più indietro a seconda della neve e delle condizioni. Ad esempio quando c’è neve piuttosto molle, dove si tende a sprofondare, è meglio stare un po’ più arretrati, col peso sui talloni rispetto all’avanpiede, in modo che gli sci tendano a galleggiare.”
Ma se sugli obiettivi sulla neve non si vuole sbilanciare, sul futuro si lascia andare ad un largo sorriso, dimostrando che nonostante le ore di solitudine e di riflessione, la fatica, le delusioni e le gioie, lei è rimasta fedele alle sue origini. “Sono cresciuta in un allenamento di cani da slitta e mi piacciono tantissimo i cavalli. Io purtroppo non ne ho perché sono troppo tempo fuori casa durante l’anno. Mi piacerebbe averne quando sarò più stabile. Non sono mai andata a cavallo sulla neve per una questione di professionalità, perché ho paura di farmi male d’inverno, ed ovviamente non sarebbe il caso visto lo sport che faccio, ma quando smetterò sarà la prima cosa che farò!”
Noi sappiamo che ancora per diversi anni quest’esperienza dovrà e potrà aspettare, perché davanti a sé la padolina ha gli anni migliori e siamo sicuri che saprà impressionare gli scandinavi ancora di più con i risultati che riuscirà a raggiungere nella loro disciplina. Dopotutto, siamo un paese di santi, navigatori e, perché no, ogni tanto, di fondisti.