L’Italia di Conor O’Shea si presenterà al Sei Nazioni 2018 con un approccio diverso, una vittoria all’attivo e tanti esperimenti da portare avanti. Sono gli appunti dei test match di novembre a dirlo: il successo contro le isole Figi, le sconfitte contro Argentina e Sudafrica hanno dato qualche suggerimento, hanno fatto suonare un po’ di campanelli d’allarme e hanno offerto delle preziose conferme. In attesa, ovviamente, di chi – da Michele Campagnaro a Maxime Mbandà, passando per Ornel Gega e Sami Panico – quei match non li ha giocati per cause di forza maggiore.
I punteggi finali parlano chiaro, ma fino a un certo punto. Il 19-10 contro le Figi, infatti, porta il fieno in cascina del risultato (ottenuto, tra l’altro, con una sola meta siglata da Simone Ferrari), ma va letto sempre nell’ottica della sfida a una squadra isolana, indisciplinata e poco consistente in mischia. Roba diversa, insomma, rispetto al rugby dell’Europa che conta. Più probante il match contro l’Argentina, dove però gli azzurri non sono mai andati in meta. Il 15-31 è indice di una buona tenuta per tre quarti di match, ma ha anche acceso la spia del solito crollo nel finale: due azioni concesse agli avversari e due bottini grossi regalati ai Pumas. Il risultato sarà anche stato bugiardo, ma i tanti falli azzurri e il calo fisico non possono essere sottovalutati.
Con il Sudafrica, invece, è stata tutta un’altra storia. Negli occhi degli Springboks c’era la rabbia del peccato originale, quella vittoria azzurra di Firenze del 2016, la prima dell’Italia contro una nazionale dell’emisfero sud. La valanga sudafricana ha travolto il XV di O’Shea: 5-36, sfondamenti a ripetizione e tanti errori pagati a caro prezzo.
Insomma, la semina c’è, il raccolto è poco. L’Italia del rugby sta lentamente ritrovando competitività grazie anche alle buone prestazioni delle franchigie. Benetton Treviso e Zebre Rugby stanno portando a casa risultati e prestazioni nel Pro 14: impensabile fino a un anno fa, quando la franchigia di Parma sembrava a un passo dal fallimento e quella trevigiana raccoglieva punti solo nei derby o in serate di grazia contro avversarie straniere. Il dialogo tra la nazionale, i club e le franchigie ha senz’altro ridato lucidità al movimento. Punto a favore del team azzurro.
Gli inserimenti di alcuni giocatori in nazionale, poi, hanno offerto valide alternative in ruoli che l’anno scorso sembravano quasi scoperti. Così, l’innesto di Jayden Hayward ha regalato all’Italia un estremo quasi puro, prendendo il posto dell’adattato Edoardo Padovani. Dean Budd ha dato centimetri e consistenza al pacchetto di mischia, Ian McKinley e la sua fantastica storia (quasi cieco da un occhio, ha riconquistato i palcoscenici del rugby internazionale proprio in Italia) hanno offerto una valida alternativa a Carlo Canna.
Boni, Castello e Bellini – che già si erano affacciati in azzurro nella finestra di giugno della passata stagione – hanno dimostrato di essere in grado di saltare l’uomo. In attesa del ritorno di Michele Campagnaro, l’ala più promettente e più fragile d’Italia, O’Shea non può far altro che nutrire buone speranze in fase di realizzazione. L’Italia, però, offrirà prestazioni di livello soltanto se migliorerà dal punto di vista della disciplina – troppi i falli azzurri nel corso dei match -, se si atterrà in maniera fedele al piano di gioco e se riuscirà a estendere di altri 20 minuti a partita la tenuta fisica. In quante partite l’Italia è stata a galla fino al 60° minuto per poi naufragare nella parte finale dell’incontro? Questo, al Sei Nazioni 2018, non potrà più succedere.