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Quattro anni fa Niccolò Campriani tornava nella sua Firenze con al collo un oro e un argento olimpici conquistati nel tiro a segno, rispettivamente nella carabina 50 metri 3 posizioni e nella carabina 10 metri ad aria compressa. Negli anni d’attesa che lo separavano da Rio, Niccolò si è dedicato anche ad altri interessi al di fuori della linea di tiro: ha scritto assieme a Marco Mensurati un libro meraviglioso, Ricordati di non avere paura, il cui sottotitolo Cosa fa di un atleta un uomo felice è la sintesi perfetta della difficile convivenza di un ragazzo neppure ventinovenne nei panni del campione olimpico in carica.
A pochi giorni dalla cerimonia di apertura, Niccolò rivive con noi le emozioni di Londra, l’amicizia con il rivale Matthew Emmons, le aspettative per l’imminente Olimpiade velate dall’incertezza per le nuove regole introdotte nella finale del tiro a segno.
Niccolò, ci siamo quasi. Raccontaci quali sono state le differenze tra i quattro anni precedenti Londra e i quattro anni prima di Rio.
“Prima di tutto sono cambiato io, sono un uomo diverso, la sfida di uno sportivo è proprio questa: uno fa un determinato percorso di vita e nel frattempo le performance dell’atleta si misurano con una sola unità di misura. Davanti alla linea di tiro la distanza e le dimensioni del bersaglio non cambiano ma sei tu ad essere una persona con uno spirito diverso. Per quel che mi riguarda mentre i quattro anni tra Pechino e Londra sono stati, se vogliamo riassumerli, ‘cosa serve fare per trovare l’equilibrio ed essere felice nello sport’, questi quattro anni sono stati più una lezione su ‘cosa non devo fare perché si rischia di farsi male’. Una lezione molto importante anche quella, per carità di Dio. Sicuramente è stato utile in un modo diverso”.
Una delle cose che mi hanno colpito del libro è il discorso dell’accettare le proprie imperfezioni e i propri limiti. Questo forse per te è valso anche nell’ultimo quadriennio.
“La mia sensazione è che più vai avanti più sai di non sapere e non è che le cose migliorino, anzi. Magari nei primi anni giovanili si ha anche quella componente di incoscienza mista a leggerezza che aiuta molto in termini di risultato. Poi più uno scopre se stesso e più deve gestire diverse componenti, per esempio penso che nel mio caso la mia forza sia proprio la mia fragilità. In questo sport non è tanto un discorso di essere freddi e non sentire le emozioni; anzi, io sono sempre stato una persona molto emotiva, lo ero anche a scuola la mattina degli esami…però questa mia emotività era anche un ponte che mi metteva in connessione con i miei pensieri ed è stato uno strumento utilissimo per la vita di tutti i giorni. Il Niccolò che ha fatto l’esame di terza media è completamente diverso da quello che ha fatto l’esame di maturità. Alla fine una delle frasi più belle che ho in mente è quella che mi ripete sempre lo psicologo dello sport americano Edward Etzel: ‘La vita non è aspettare che passi la tempesta ma imparare a ballare sotto la pioggia’. Così è il tiro a segno e così onestamente è la vita. Si tratta di tirare fuori il meglio nelle situazioni di difficoltà. Non si tratta solo di stringere i denti ma di provare con un atteggiamento diverso, più positivo, a divertirsi nelle avversità. A maggior ragione con l’introduzione delle nuove regole in finale è diventata una caratteristica essenziale da avere”.
Ho consigliato con piacere il tuo libro a tanti tennisti, perché effettivamente il tennis e il tiro a segno hanno qualcosa di molto simile dal punto di vista mentale.
“Sì, ci sono tantissime similitudini tra tiro a segno e tennis, perché sono sport individuali molto analoghi in cui si tratta di giocarsela un tiro alla volta, cancellando il passato e non pensando al futuro, cercando di essere sempre con la testa sul pezzo. Uno dei miei momenti preferiti quando guardo la tv sono le interviste pre-match di tennisti e golfisti: mi fa piacere sentire l’intervista di Djokovic la sera prima di Wimbledon o dei golfisti prima del Master, che durando quattro giorni a livello di nervi deve essere devastante. Trovo sempre tantissimi spunti dalle loro esperienze”.
La sensazione che descrivi di Londra nel libro sembra più di stordimento che di euforia, quasi di accecamento. Ci sono due tre immagini che ti rivengono in mente ripensando a Londra?
“Lì a caldo la sensazione di sollievo è stata quella dominante. Forse uno dei pochi rimpianti che ho di quella finale è proprio il fatto che mi ha spinto a voler fare un’altra Olimpiade per provare a gestire la gara come volevo. Mi spiego: non può essere che il clou della tua carriera sportiva si risolva con: ‘Menomale che è finita!’, non doveva essere così mannaggia! Però 30 secondi dopo mi sono accorto che anche Emmons era sul podio nonostante avesse fatto un errore nell’ultimo tiro; aveva preso la medaglia di bronzo ed era un momento molto emozionante per lui, c’eravamo allenati insieme fino alla settimana prima quindi mi ha fatto molto piacere essere stato lì a condividerla con lui. Forse uno dei momenti più belli in assoluto è stato quando sono rientrato in Italia, quando ho rivisto i miei all’aeroporto di Milano, perché insomma anche i genitori si fanno un’Olimpiade, le notti in bianco e tutto il resto… poi ovviamente cercano di limitarsi nelle parole che usano ma la fatica di una settimana olimpica gliela leggi tutta in faccia”.
Probabilmente è proprio con Emmons che ci si giocherà la medaglia.
“Emmons ultimamente sta tirando benissimo. Uno degli errori che ho fatto è stato proprio voler combattere il sistema mentre gli altri si sono girati dall’altra parte e l’hanno accettato fin da subito; in me invece c’è sempre stata una componente cocciuta che deve sempre dire la sua, non so se eredità di mia mamma. Questo mi ha rallentato, mi sono perso i primi due anni del ciclo olimpico in cui di fatto non stavo lavorando sul nuovo metodo di tiro della finale. Prima lo accettavo, meglio era. Emmons invece ha ingranato subito e nell’ultimo anno ha iniziato a vincere con costanza in finale. Magari in qualifica lo batto ancora ma in finale sta facendo il vuoto. Certo, la finale olimpica ovviamente è un’altra cosa, spero di esserci lì con lui”.
Con le nuove regole introdotte nella finale è quasi un altro sport.
“Da fuori può non sembrare perché siamo vestiti uguali, la carabina è uguale, ma è proprio uno sport diverso, a partire dall’atteggiamento. Una delle mie qualità più grandi è che, se tutto non è perfetto, io non accetto compromessi, tiro solo quando mi sento a posto. Quindi se posso gestirmi il tempo in gara, in questo modo salvo tantissimi errori. Il perfezionismo è stata la mia vera fortuna e forse è stato il motivo per cui mi sono innamorato di questo sport: non accettare mai compromessi e cercare di avvicinarsi il più possibile a questa utopia del colpo perfetto. Mentre adesso in finale, con tempi velocissimi e a comando, al di là di come ti senti, al di là di quello che hai in testa, al di là di quanto possano essere tesi i muscoli, quel grilletto lo devi strappare via per forza. Quindi mi trovo a tirare dei colpi che non voglio lasciare, però lo devo fare! È un atteggiamento diverso che devo impormi: nell’ultimo mese ho fatto proprio dei cambiamenti sulla carabina anche solo per darmi una nuova impostazione mentale, per collegare a input diversi una mia risposta diversa. Perché se sento stimoli differenti io quel colpo non lo lascio. Ora sto cercando di essere più aggressivo, di tenermi la carabina addosso, di ancorarmela a me e di tirare. La sfida questa volta non è stringere i denti ma provare a divertirsi, a trovare un gioco in tutto questo”.
È banale forse parlare di obiettivi per Rio ma come arrivi mentalmente con le due medaglie di Londra in tasca? E come vedi l’avvicinamento di Petra a questa Olimpiade?
“Per quanto riguarda me, più che difendere un titolo, si tratta di vincerlo con questo nuovo format, che è una sfida tutta nuova. Forse alla fine mi hanno fatto quasi un regalo perché ripetersi è una cosa, mentre cercare di raggiungere qualcosa di diverso ha un altro fascino. Di fatto Londra è lontanissima e con tutta onestà io quelle medaglie non le vedo da dieci giorni dopo l’ultima gara…siamo rientrati in Italia il 6 agosto, penso di averle date a mia mamma il 20 agosto e quella è l’ultima volta che le ho viste! Per quanto riguarda Petra lei ha un tiro di forza, di grinta, la carabina la tiene stretta addosso. Lei ha come miglior difesa l’attacco; oddio, questa è una caratteristica che magari nella vita sentimentale non è semplicissima eh, ma di fatto nello sport è sicuramente un’arma in più. Questo format si sposa perfettamente con il suo stile; infatti lei magari ha più difficoltà ad entrare in finale, ma se succedesse può veramente giocarsela…e poi ha il record del mondo femminile, che è due punti più alto di quello maschile, il che ti dà un’idea di quello che ha fatto! Cerco di starle il più vicino possibile. A Londra invece ero molto più focalizzato su di me. Qui vorrei veramente esserci per lei perché comunque è faticoso fare uno slalom tra tutte le distrazioni; nelle nostre vite ci vogliono quelle due-tre ancore con cui ti puoi aprire, con cui puoi parlare senza aver sempre le difese alzate. Ci vuole qualcuno con cui poter parlare di sport e non di medagliere Saremo insieme la sera della cerimonia olimpica, a cui non potremo essere presenti, e cercheremo di farci forza insieme cercando di limitare il dispendio di energie. Ma negli anni siamo diventati bravi a gestirci”.