C’è stato un giorno di sedici anni fa in cui ci siamo svegliati tutti nel nuovo millennio. Un’esperienza che poche generazioni nella storia del pianeta hanno potuto provare e da cui in molti si sono aspettati chissà quali mirabili novità. Una volta superata la fobia per il famigerato Millenium Bug, quel buffo fenomeno per cui gli orologi dei computer di tutto il pianeta avrebbero dovuto fraintendere il passaggio dell’anno da “99” a “00” facendo andare in tilt tutto, ci era rimasta la curiosità per un mondo che ingenuamente aspettavamo diventasse avveniristico in uno schiocco di dita.
In realtà il 2 ma anche il 3 gennaio del 2000 non sono stati poi così diversi dai giorni precedenti, quelli ancora targati 1999. Ad andare al bar si poteva ancora comprare un caffè con 1500 lire, leggere sul giornale -1500 lire anche quello- delle travagliate vicende del governo D’Alema II e della ombrosa fine della legislatura Clinton negli Stati Uniti, raccontarsi le impressioni sulla nuova puntata di Friends andata in onda su RaiDue, chiedersi chi l’avrebbe spuntata tra Juve e Lazio in quell’equilibrata serie A.
Visto che la quotidianità lo impediva, fu allora in alcuni simboli che il mondo tutto scelse di dare al 2000 quel senso ecumenico di cambio di passo, di svolta epocale e di buon auspicio per gli anni a venire. Uno di quei simboli furono i Giochi della XXVII Olimpiade ospitati a Sydney, in Australia. Suggestivo che proprio il più giovane tra i continenti scoperti ospitasse i Giochi del terzo millennio e Sidney da un punto di vista organizzativo e comunicativo non deluse le attese consegnando al pianeta una delle edizioni dei Giochi più riuscite in termini di pubblico, impianti, partecipazione ma anche successi sportivi di rilievo. Era la prima volta, e finora l’unica, che la fiamma dei Giochi andava così “lontano” dal cuore europeo e coubertiniano dell’Olimpiade, superando persino l’edizione di Seoul del 1988 anche se l’Australia per storia e cultura sportiva aveva e ha ben poco da invidiare alle più grandi tradizioni del Vecchio continente.
La partecipazione in termini di nazioni arrivò nel 2000 a 199 migliorando quanto visto ad Atlanta nel 1996 con il battesimo olimpico, tra gli altri, di Eritrea e Micronesia ma con l’esclusione dell’Afghanistan –presente quattro anni prima- per questioni di discriminazione delle donne in ambito sportivo ritenute inammissibili dal CIO. Il primo medagliere del nuovo millennio, in barba all’innovazione e al cambio di passo, fu alquanto conservatore e consegnò il primo posto agli Stati Uniti seguiti dalla Russia (89 medaglie contro 91 nel computo totale, ma 36 ori a 32 per gli yankee) e dietro ancora la Cina prima dei padroni di casa che fecero luccicare di fronte ai fuochi d’artificio sull’Harbour Bridge durante la cerimonia finale 16 pezzetti d’oro, 25 d’argento e 17 di bronzo. L’Italia si piazzò settima con 34 medaglie totali di cui 13 ori, nel bottino più nobile a pari merito con Germania e Francia.
Fu per gli azzurri un’Olimpiade particolarmente fortunata in acqua con l’oro di Alessandra Sensini nella vela, quello nel canottaggio con il quattro di coppia “guidato” da Agostino Abbagnale e le vittorie in canoa della leggendaria Josefa Idem nel K-1 500 m e nel K-2 1000 m per merito della coppia Rossi-Bonomi. Affatto inferiori furono i successi arrivati dalle vasche dove Massimiliano Rosolino e Domenico Fioravanti strapparono successi ricchi di intensità alla squadra di nuoto australiana al limite dell’invincibile soprattutto nel suo atleta di punta, lo squalo Ian Thorpe.
Quando nelle piscine di Sydney ancora iniziava timidamente a farsi vedere un promettente quindicenne di Baltimora dal nome di Michael Phelps, Ian Thorpe era ancora legittimamente il nuotatore più forte del pianeta (in stretta rivalità con il gigante olandese Peter Van Den Hoogendamp) e non era indifferente per lui poterlo dimostrare di fronte al pubblico di casa. Thorpe riuscì a imporsi nella gara dei 400 m stile libero duellando in finale contro il nostro Massimiliano Rosolino, staccandolo solo nelle ultime due vasche e chiudendo con il record del mondo fatto segnare in 3’40’’59. Non gli riuscì il bis nella gara dei 200 m dove dovette cedere a Van Den Hoogendamp dopo una giornata di gare iniziata con il record olimpico infranto nelle batterie e dopo le quali le possibilità dell’olandese sembravano residuali, ma alla fine a Thorpe toccò “solo” un ingrato argento dietro al rivale anseatico. A completare il bottino dello squalo arrivarono i due ori nelle staffette 4 x 100 m e 4 x 200 m stile libero e l’argento nella staffetta 4 x 100 misti portando a cinque le medaglie che gli valsero, in patria, una targa celebrativa per il successo ottenuto.
Massimiliano Rosolino, in tutto ciò, incassato l’argento nei 400 m stile libero e il bronzo nei 200, dietro Van Den Hoogendamp e Thorpe, torno dall’Australia anche con la gioia dell’oro ottenuto nuotando i 200 m misti in 1’58’’98 davanti agli americani specialisti Tom Dolan e Tom Wilkins. I risultati di Domenico Fioravanti invece arrivarono, come noto, dalla rana, specialità in cui l’ex nuotatore piemontese e oggi apprezzato commentatore di RaiSport ha sempre eccelso. Nuotando i 100 m in 1’00’’46 e i 200 m in 2’10’’87 Fioravanti conquistò l’oro su entrambe le lunghezze siglando una doppietta a tutti gli effetti storica.
Gli altri ori della spedizione italiana down-under, per chiudere una parentesi sui trionfi azzurri, arrivarono dalla solita calda alcova della scherma con il fioretto individuale e a squadre femminile e la spada a squadre maschile. Una nota felicemente stonata arrivò dal judo con l’oro conquistato nella specialità 73 kg uomini da Giuseppe Maddaloni, judoka napoletano presentatosi a Sidney da due volte campione d’Europa.
In un’epoca, quella dei primi anni 2000, in cui i velocisti della pista non erano stati ancora del tutto monopolizzati dalla fertile scuola jamaicana gli Stati Uniti seppero prendersi ricchissime seppur controverse soddisfazioni con Michael Johnson che si confermò un quattrocentometrista di livello assoluto bissando a Sydney l’oro di Atlanta sulla sua distanza preferita anche se mancò di ripetersi sui 200 m dove l’oro andò al greco Kostantinos Kederis. I maggiori successi a stelle e strisce però in terra australiana se li prese l’atletica al femminile con i tre ori e due bronzi conquistati da Marion Jones, successi all’epoca celebrati come straordinari ma macchiati anni dopo dalla scoperta dell’uso di sostanze dopanti da parte dell’atleta e prontamente revocati. Come spesso accade in questi casi l’amara beffa di aver celebrato vittorie falsate si mescola al ricordo delle emozioni provate nel raccontare, commentare o semplicemente assistere alle stesse. E in qualche modo, seppur nebuloso, negli occhi di chi la vide scattare come una gazzella sulle piste di Sydney, le emozioni di allora non saranno mai del tutto macchiate dal doping.
Le sorti simboliche e più genuinamente olimpiche dell’atletica a Sydney restano comunque dolci ed ecumeniche per la storia di Cathy Freeman, l’atleta australiana di origine aborigena e campionessa nei 400 m piani femminili. La storia degli aborigeni in Australia è una storia sporca, fatta di malcelato colonialismo, disprezzo e messa ai margini delle frange di popolazione aborigena meno inclini ad accettare il sistema di vita e di valori portato lì dai bianchi. Da un mondo di tradizioni ataviche spazzate via in nome del progresso capitalista e di centinaia di persone ridotte a un degradante alcolismo senza identità, la storia di Cathy Freeman da Mackay ha lanciato un gesto di pace tra due mondi così faticosamente accostati. Atleta vera e non certo carneade da occasione, la Freeman arrivava da un argento olimpico ad Atlanta con tanto di record olimpico di specialità fatto segnare in 48’63’’ e da numerose polemiche portatesi dietro dai Giochi del Commonwealth 1944 tenutisi ad Auckland dove –dopo la vittoria sui suoi amati 400 metri- sfilò portando sulle spalle la bandiera australiana assieme a quella rappresentativa del popolo aborigeno.
Cathy Freeman ripeté lo stesso gesto a Sydney, dopo aver conquistato la centesima medaglia d’oro olimpica per l’Australia di fronte a un pubblico estasiato. La doppia natura di Cathy, aborigena per tradizioni e aussie per formazione e crescita, è la stessa di una terra che ancora troppo spesso rinnega le sue ferite e non fa abbastanza per ricomporle e di simboli come quello della Freeman –magari proprio mutuati dallo sport- ne serviranno ancora molti. Per fortuna lo spirito dell’Olimpiade non ha fretta.