“Olimpiadi, come here!”. La Dolce Vita e Roma 1960, un connubio indissolubile: il fascino irresistibile della città eterna, immortalata nel capolavoro di Federico Fellini qualche mese prima, ammalia il mondo dello sport. I primi e unici Giochi estivi organizzati nello Stivale si inseriscono in un contesto storico delicato, caratterizzato da grandi mutamenti politici, culturali, sociali ed economici, un passaggio palpabile da un vecchio ordinamento al mondo che vediamo oggi, con tutte le sue diverse sfumature. È l’alba di un decennio attraversato dalla Guerra Fredda, dall’indipendenza delle colonie africane, i primi viaggi nello spazio, la costruzione del muro di Berlino, dai Beatles, il raduno di Woodstock e le lotte di personaggi straordinari, che hanno lasciato un segno profondo e indelebile nelle coscienze collettive e che spesso hanno pagato con la propria vita il prezzo di parole e azioni scomode.
In Italia siamo in pieno boom economico, ma gli anni ’60 cominciano con un marasma politico che porterà alle dimissioni del Presidente del Consiglio Antonio Segni, diventato qualche anno più tardi Presidente della Repubblica. Il Governo provvisorio, affidato a Fernando Tambroni,si adoperò per preparare al meglio l’evento più atteso, ma lo stesso Tambroni si dimise il 19 luglio,a seguito dei tumulti scatenati in tutto lo Stivale dopo i “fatti di Genova” del 30 giugno, che portarono alla strage Reggio Emilia. Amintore Fanfani, al suo terzo mandato, si insediò il 26 luglio, un mese prima dell’inizio dei Giochi Olimpici.
ASSEGNAZIONE, PREPARAZIONE E NOVITÁ – Roma era già stata designata come sede dei Giochi del 1908. Dopo i fallimenti di Parigi 1900 e Saint Louis 1904, il barone Pierre de Coubertin voleva rilanciare l’immagine della competizione, assegnando la quarta Olimpiade a una città capace di sposarsi alla perfezione con la sua idea di far rivivere i canoni classici greci attraverso lo sport. La crisi economica e politica del Governo italiano, oltre all’eruzione del Vesuvio del 1906, costrinsero però il Comitato Olimpico a rinunciare all’organizzazione e a favorire Londra, battuta in un primo momento insieme a Berlino grazie alla spinta decisiva dello stesso De Coubertin. La capitale fu così costretta ad aspettare ben 52 anni prima di diventare il centro del mondo sportivo. I Giochi della XVII Olimpiade furono assegnati ufficialmente il 15 giugno 1955, nella seduta del CIO svoltasi proprio nel capoluogo laziale. L’Italia, che già si stava preparando ad ospitare i Giochi invernali di Cortina del 1956, ottenne finalmente il riconoscimento più importante: Roma vinse il ballottaggio finale con Losanna, raccogliendo 35 voti contro 24.
Nonostante l’instabilità politica, la macchina organizzativa funzionò alla perfezione, grazie alla collaborazione tra Stato e CONI, a cui era stato affidato il monopolio sulle scommesse calcistiche. Il totocalcio aveva portato nelle casse dell’ente notevoli introiti, che vennero in parte utilizzati nella costruzione e nel rifacimento degli impianti (molti risalenti all’epoca fascista), senza gravare sul bilancio statale. La fama e la bellezza di Roma richiamarono i più celebri architetti e ingegneri dell’epoca, su tutti Luigi Moretti, Adalberto Libera e Annibale Vitellozzi. Sotto la supervisione di Pier Luigi Nervi furono svolti i lavori di ammodernamento del vecchio Stadio Olimpico, costruito da Mussolini per emulare quello di Berlino; l’impianto fu il centro nevralgico dei Giochi, dove si tennero le cerimonie di apertura e chiusura e le gare d’atletica. A pochi passi dall’Olimpico fu ritoccata anche l’area del Foro Italico, e nelle vicinanze furono realizzati il Palazzetto dello Sport, il velodromo e il Villaggio Olimpico. Le Terme di Caracalla, la Basilica di Massenzio e il lago di Albano ospitarono diverse discipline, mentre le acque del golfo di Napoli accolsero le competizioni di vela. A differenza di molte altre sedi olimpiche, il Villaggio fu costruito a pochi chilometri dal centro storico, per favorire l’integrazione tra gli atleti e gli abitanti e per permettere a tutti di godere appieno delle bellezze della città eterna. Anche Papa Giovanni XXIII volle partecipare a questa grande festa di sport e diede udienza in Vaticano a tutti gli atleti e i dirigenti.
L’Olimpiade italiana fu una grande manifestazione globale, grazie alla copertura televisiva garantita dalla Rai, con oltre 106 ore di programmazione dedicata. Le gare furono trasmesse in tutta Europa e, in differita, anche oltreoceano; alcune di esse, in particolare la maratona, furono uno straordinario spot per il turismo e per il patrimonio artistico di Roma. L’Istituto Luce si affidò al grande regista di documentari Romolo Marcellini per girare il film ufficiale dei Giochi: La Grande Olimpiade ottenne una nomination agli Oscar del 1962 e numerosi riconoscimenti. Ma non finisce qui: Roma, infatti, è stata anche la culla dei primi Giochi Paralimpici, inaugurati il 18 settembre dal Ministro della Sanità Camillo Giardina. In realtà già esistevano i Giochi Internazionali per Paraplegici, ideati nel 1952 dal medico inglese Ludwig Guttmann e tenuti annualmente a Stoke Mandeville. Solo nel 1984 il CIO riconobbe quelli di Roma come Giochi Paralimpici, poiché si erano disputati nella stessa città che ospitava l’Olimpiade. Alla competizione parteciparono 400 atleti provenienti da 23 Paesi, che si sfidarono in otto discipline e 57 gare. Quella italiana fu la delegazione maggiormente rappresentata e dominò la scena, conquistando ben 80 medaglie.
I GIOCHI OLIMPICI DI ROMA 1960 – La Grecia e Roma legate da un filo invisibile, come desiderava De Coubertin. Il viaggio olimpico cominciò il 12 agosto a Olimpia, dove fu accesa la fiaccola da una “sacerdotessa” del tempio di Giove. Al termine del lungo cerimoniale, la torcia fu consegnata al decatleta Penaghiotis Epitropoulos, che inaugurò la mitica staffetta. La fiaccola giunse nel porto di Zéas e venne trasportata a bordo della nave Amerigo Vespucci; alle 20.30 del 18 agosto sbarcò a Siracusa e proseguì la sua marcia lungo il percorso tracciato dagli antichi greci per fondare le colonie della Magna Grecia, incontrando ovunque il grande entusiasmo della popolazione. Toccò quindi le province di Catania, Messina, Reggio Calabria, Catanzaro, Cosenza, Taranto, Matera, Potenza, Salerno, Avellino, Napoli, Caserta, Latina e arrivò a Roma, in Campidoglio, alle ore 21 del 24 agosto. All’indomani riprese il cammino, che si concluse alle 17.30 con l’ingresso trionfale nello Stadio Olimpico dell’ultimo tedoforo, lo sconosciuto diciannovenne Giancarlo Peris, scelto perché vincitore dei campionati di corsa campestre della provincia di Roma.
Gli ottantamila spettatori avevano già assistito alla cerimonia di apertura e alla sfilata degli atleti provenienti dalle 83 Nazioni presenti, un momento di grande partecipazione, commozione e tensione. Alle spalle della Grecia, che aveva come portabandiera nientemeno che il principe-velista e futuro re Costantino (poi oro nella classe Dragon), si succedettero tutte le delegazioni: entrò quella del Cile, martoriato dal terremoto più devastante del secolo scorso; dell’Etiopia, un tempo colonia italiana; di Formosa-Taiwan, che mise in scena una clamorosa protesta contro l’assente Repubblica Popolare Cinese; della Germania eccezionalmente riunita (“Ai Giochi Olimpici queste cose possono accadere”, disse il presidente del CIO Avery Brundage all’incredulo Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi); degli Stati Uniti, che avevano scelto per la prima volta come alfiere un atleta di colore, Rafer Johnson, campione nel decathlon al termine di un pazzesco testa a testa con l’atleta di Formosa Yang Chuan-kwang; dell’Unione Sovietica, la grande rivale degli americani nel medagliere e nella Guerra fredda. Un boato accolse infine la squadra azzurra, guidata dal portabandiera Edoardo Mangiarotti, il grande schermidore alla sua quinta e ultima esperienza olimpica. Dopo l’accensione del braciere e il giuramento pronunciato dal discobolo Adolfo Consolini , fu il turno dei saluti ufficiali di Giulio Andreotti (Ministro della difesa e presidente del Comitato olimpico nazionale) e di Brundage. A Giovanni Gronchi spettò l’onore di recitare la formula magica e spalancare ufficialmente il sipario su Roma 1960.
PROTAGONISTI – Un diciottenne pugile americano, spavaldo e determinato, soprannominato il Sindaco del Villaggio Olimpico. La mitica Gazzella nera, la donna che fece innamorare tutti con la sua eleganza. L’Africa nera che muove i primi passi “indipendenti” e domina la gara più importante. I primi casi di doping e una morte forse evitabile. Le polemiche per una decisione controversa in una gara all’ultima bracciata. La netta affermazione dell’Urss sugli Usa nel medagliere. L’edizione italiana dei Giochi, nonostante il gran caldo, non deluse le attese e consacrò nel firmamento dello sport mondiale alcune stelle di assoluta grandezza. Di Cassius Marcellus Clay jr.,diventato in seguito Muhammad Alì, uno dei personaggi più influenti del secolo scorso, si è detto e scritto tanto nelle ultime settimane. La sua morte ha lasciato nei cuori di tutti gli sportivi un vuoto difficilmente colmabile. All’Italia e alla città di Roma resta l’orgoglio di aver assistito al primo atto di una carriera costellata di successi e combattimenti leggendari. “Sono il più bravo, diventerò il campione del mondo”: una frase ripetuta come un mantra, una promessa mantenuta a partire da quel 5 settembre, giorno in cui annientò, davanti ai 15000 del PalaEur, il polacco Zbigniew Pietrzykowski nella finale dei mediomassimi.
Proprio Clay fu protagonista, insieme a Livio Berruti di un chiacchierato triangolo sentimentale con la ventenne velocista americana Wilma Glodean Rudolph, la donna più desiderata di tutto il villaggio olimpico, a cui tra l’altro era stata attribuita una relazione con il velocista Ray Norton, senza dubbio la maggiore delusione a stelle e strisce dei Giochi. Galeotta fu… una tuta: Wilma volle scambiare la sua con quella di Livio e il suo sguardo fulminò il velocista torinese. Passeggiate mano nella mano, abbracci e incontri fugaci, ma sempre pubblici; una stupenda storia, resa quasi impossibile dalle rigide regole del Villaggio e dalla presenza di un ragazzone del Kentucky invaghitosi della connazionale, con cui non era affatto consigliabile mettersi a discutere. Cassius Clay continuò a provarci anche al rientro in patria, dove scoprì che la Rudolph aveva già un bambino nato da una precedente relazione. Wilma, la splendida Atalanta nera nata prematura, capace di sconfiggere la poliomelite da bambina e tutte le sue rivali in pista, conquistando ben tre medaglie d’oro nella velocità (100, 200 e 4×100). Punta di diamante delle celebri Tigerbelles, anche lei, come Alì, fu vittima di un terribile male, un tumore al cervello che l’avrebbe uccisa a soli 54 anni.
Personaggi indimenticabili e sfortunati nella vita privata, come il nuovo Dio della maratona, l’etiope Abebe Bikila, il primo atleta africano a vincere una medaglia d’oro ai Giochi Olimpici, proprio in casa dei suoi ex padroni. Simbolo di un continente che pian piano si stava liberando dal colonialismo, Bikila staccò negli ultimi due chilometri il marocchino Abdesselam, facendo segnare il nuovo record olimpico. Il suo arrivo trionfale sotto l’arco di Costantino, la sera del 10 settembre, è entrato nella leggenda dello sport: il corridore abissino tagliò il traguardo a piedi nudi e si vendicò simbolicamente di quell’effimero impero che aveva oppresso il suo popolo. Anche per lui, però, il destino non ha riservato un trattamento di favore: nel 1969 rimase paralizzato in seguito a un incidente stradale e morì nel 1973 a causa di un’emorragia cerebrale, all’età di 41 anni. Andò decisamente peggio al ciclista danese Knud Enemark Jensen, deceduto il 26 agosto a causa di un malore accusato durante la 100 km a squadre. Fatale fu il mix tra caldo (circa 42°) e intossicazione da stimolanti: Jensen svenne a 20 km dal traguardo e si fratturò il cranio cadendo. Inutili i soccorsi, morì poche ore dopo l’incidente; gli esami tossicologici rilevarono tracce di diversi tipi di anfetamine, ma il referto ufficiale dell’autopsia insabbiò le accuse e non menzionò sostanze proibite. Una tragedia evitabile, perché l’allenatore della squadra scandinava di ciclismo confessò a un giornale di essere stato a conoscenza dell’assunzione di Ronicol da parte di diversi atleti. Una storia controversa, che fece scalpore tanto quanto la finale dei 100metri stile libero, dove l’australiano John Devitt e lo statunitense Lance Larson arrivarono appaiati. Per i cronometristi ufficiali, Larson toccò in 55”1 e Devitt in 55”2, ma il giudice arbitro, il tedesco Hans Runstrumer, ribaltò tutto attribuendo ad entrambi il tempo di 55”2 e assegnando la vittoria a Devitt. All’epoca la decisione finale spettava ai responsabili della FINA, che furono irremovibili nonostante le proteste americane e l’imbarazzo generale, visto che Larson era già stato portato in trionfo e osannato dal pubblico.
Fu uno dei tanti bocconi amari buttati giù dalla spedizione americana, che già aveva subito l’onta della disfatta nelle due gare di velocità dell’atletica, dove a trionfare erano stati un tedesco (Armin Hary) e un italiano (Berruti), a spese di Carney, Sime, Johnson e del già citato Norton. Il medagliere, alla fine, vide l’evidente supremazia sovietica, grazie soprattutto alle brillanti prestazioni nella ginnastica (in particolare con Larissa Latynina), kayak, sollevamento pesi, lotta e scherma.
GLI AZZURRI – L’anno olimpico non era cominciato nel migliore dei modi per lo sport tricolore. Il 2 gennaio, infatti, moriva “Il Campionissimo” Fausto Coppi. Il ciclismo azzurro pianse uno dei suoi figli prediletti, ma riuscì ad onorarne degnamente la memoria durante i Giochi: delle sei gare disputate in bicicletta (tutte maschili), cinque terminarono con il trionfo degli atleti di casa, che sfiorarono uno storico en-plein. Sante Gaiardoni nella velocità e nel chilometro da fermo, Giuseppe Beghetto e Sergio Bianchetto nel tandem, l’inseguimento e la 100 km a squadre conquistarono il titolo, mentre Livio Trapé fu d’argento nella corsa in linea, battuto dal sovietico Kapitonov.
Medaglie dal forte valore simbolico, come l’oro di Livio Berruti nei 200 metri. Un’affermazione non del tutto inattesa, perché lo studente piemontese aveva già impressionato nelle Universiadi disputate un anno prima con un fantastico 20”9. Già in semifinale si capì che quel 3 settembre sarebbe stato un giorno da ricordare: Berruti corse in compagnia dei tre primatisti del mondo (20”5), gli americani Norton e Johnson e il britannico Radford. In finale si qualificavano solo i primi tre, quindi per staccare il pass bisognava compiere un’autentica impresa; Berruti andò addirittura oltre le aspettative, arrivando primo ed eguagliando il record del mondo. In finale si temeva che l’azzurro, a quel punto grande favorito, potesse essere schiacciato dalla pressione. Il torinese, invece, partì a razzo e uscì dalla curva in netto vantaggio, stampando ancora una volta (la seconda in appena due ore) il tempo di 20”5 e precedendo sul filo di lana Carney e Seye, tra l’incredulità e la gioia irrefrenabile degli spettatori dell’Olimpico. L’immagine di Livio che taglia il traguardo con gli occhiali da sole è senza dubbio una delle più celebri nella storia dello sport mondiale. Insieme a Berruti, l’altro protagonista assoluto di Roma 1960 fu senza dubbio Giovanni Benvenuti, meglio conosciuto come Nino. A Melbourne, appena diciottenne, era stato scartato a sorpresa dall’allenatore della Nazionale. Quattro anni più tardi, dopo aver conquistato due titoli europei, riuscì finalmente a coronare il sogno di partecipare e vincere ai Giochi Olimpici. L’istriano si sbarazzò agevolmente di tutti i suoi avversari nella categoria pesi welter e ricevette la medaglia d’oro in una custodia, al cui interno vi era una dedica a penna di Jesse Owens. Fu la prima e unica esperienza a cinque cerchi di Nino, che decise di passare al professionismo l’anno successivo, a pochi mesi di distanza da Cassius Clay.
Per l’Italia gli ori totali furono tredici e ben tre arrivarono dal pugilato: oltre a Benvenuti, anche Francesco Musso (piuma) e Francesco De Piccoli (massimi) infiammarono il Palazzo dello Sport. Raimondo d’Inzeo, il più grande cavaliere della storia dell’equitazione e recordman di partecipazione ai Giochi per l’Italia (otto), vinse l’oro nel salto ostacoli davanti al fratello Piero. Gli antenati del Settebello chiusero il torneo da imbattuti e si laurearono campioni davanti all’Urss e alla superfavorita Ungheria, mentre sei medaglie giunsero dalla scherma, di cui due del metallo più prezioso (Giuseppe Delfino nella spada individuale e la spada a squadre). Mattatore fu, ancora una volta, Edoardo Mangiarotti, che a Roma scrisse le ultime due pagine di una carriera straordinaria, portando a tredici il bottino personale di medaglie olimpiche. Per le donne, invece, solo due bronzi: oltre a quello delle fiorettiste, arrivò lo storico risultato di Giuseppina Leone, unica italiana capace di salire sul podio olimpico nei 100 metri piani.
FINE DELL’INCANTO – Domenica 11 settembre, al termine di una cerimonia di chiusura piuttosto sobria, Avery Brundage dichiarò chiusi i Giochi della XVII Olimpiade moderna. Tokyo, altra grande sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, si preparava ad accogliere l’edizione successiva. Ma quella di Roma verrà ricordata a lungo come l’Olimpiade perfetta, una manifestazione memorabile sotto ogni punto di vista. La grande bellezza della città eterna aveva contribuito a distendere le tensioni nazionali ed internazionali e favorito un clima di grande serenità e armonia. Uno spettacolo nello spettacolo, che ci auguriamo di vivere molto presto. Magari nel 2024.