Nella sessione del CIO di Losanna del 1919, ad avanzare la candidatura per i Giochi Olimpici del 1924 furono Amsterdam, Roma e (decisamente a sorpresa) L’Avana. Due anni dopo la lista crebbe in modo esponenziale, arrivando a comprendere Barcellona, Budapest, Praga, Atlantic City, Halifax, Los Angeles, Boston, Chicago e altre due città francesi, Reims e Parigi.
Fondamentale per la nuova assegnazione alla capitale transalpina, a distanza di soli vent’anni, fu il padre dei Giochi Olimpici moderni, Pierre de Coubertin. Nel 1921, con una lettera aperta ai membri del CIO, il barone chiese ed ottenne che l’ultima edizione della sua presidenza si disputasse nella propria città, anche per cercare di riscattare la pessima figura del 1900. Per rafforzare la candidatura di Parigi intervenne anche il delegato francese Alfred Megroz, che propose la creazione di una settimana di “sport invernali”, sempre sotto il controllo del CIO. La sua idea venne accolta con grande entusiasmo e fu così che il Comitato Olimpico si ritrovò a scegliere, in un sol colpo, una doppia sede: Parigi, per l’ottava Olimpiade dell’era moderna e Chamonix, per la prima storica edizione dei Giochi Olimpici Invernali.
La macchina organizzativa si mise subito in moto per la costruzione degli impianti necessari. C’era da risolvere, anzitutto, la questione stadio; sotto il controllo di Franz Reichel, grande amico di de Coubertin, si decise di accantonare Pershing (ormai inadeguato) e di spostarsi su Colombes, dove venne rifatta la pista, aggiunto un campo da rugby, campi da tennis e un nuovo impianto per il nuoto.
Gli inviti per i Giochi vennero diramati nel 1923. Le uniche nazioni a non riceverlo furono Germania e Unione Sovietica (quest’ultima alle prese con la morte di Lenin ed una situazione interna tutt’altro che facile), entrambi per motivi politici. Aderirono 44 paesi. L’apertura fu fissata per il 4 maggio (con il torneo di rugby), anche se l’inaugurazione ebbe luogo un mese dopo, la chiusura il 27, con l’idea di concentrare il tutto in tre settimane.
Se c’è un nome da accostare all’Olimpiade di Parigi 1924, è senza dubbio quello dell’uomo di ghiaccio, il finlandese Pavvo Nurmi, protagonista di un’impresa ai limiti del mitologico. Oscurato quattro anni prima dall’idolo azzurro, Nedo Nadi, a Parigi Nurmi mise tutti in fila, demolendo avversari e record. Dominatore assoluto nelle corse campestri, oro individuale e a squadre, il 10 luglio piazzò la storica doppietta 5000-1500, vinti ad un’ora di distanza l’una dall’altra davanti ad una folla che faceva la fila per assistere alle sue gesta. Due giorni dopo fece sua anche la 3000 a squadre, che gli regalò l’ottava medaglia d’oro in due Olimpiadi. I primati in classifica a fine carriera saranno ben 22, dai 1500 m ai 10000. La Finlandia, però, non fu solo Paavo Nurmi, rappresentando la seconda forza dei Giochi subito dietro agli americani (12 ori contro 10).
Memorabile a Parigi fu anche l’apparizione di Johnny Weissmuller, uno dei più grandi nuotatori della storia. Cresciuto nelle acque del lago Michigan, fece registrare una quantità mostruosa di record a livello giovanile (si parla di oltre 50 titoli AAU, l’ente di sport dilettantistici statunitense) che lo spinsero in Francia da favorito numero uno. “John” non tradì le aspettative quando all’esordio, il 18 luglio, vinse nell’ultima vasca la finale dei 400 m (di cui già deteneva il record mondiale con 4’57’’), precedendo lo svedese Borg. Due giorni dopo gareggiò nei 100 m contro l’hawaiano Duke Kahanamoku, anche lui superato nell’ultima vasca. La staffetta dei 4 x 200 m fu una passeggiata. In ultimo, si tolse anche lo sfizio di un bronzo nella pallanuoto. I più, però, lo ricordano per un’impresa diversa, lontana dall’acqua e vicina alla macchina da presa. Nel 1932, infatti, Weissmuller fu notato dal regista Woody Van Dyke che gli offrì un provino per il ruolo di Tarzan, con esiti sorprendenti. In seguito fu anche “Jim della jungla” in 16 film della Columbia.
In un’atletica dominata dalla stella finlandese di Nurmi, ci fu spazio per la vicenda che più di tutte le altre ha ispirato il film a soggetto sui Giochi più famoso di sempre, Momenti di Gloria, diretto da Hugh Hudson nel 1981 e vincitore di tre premi Oscar. La storia riguarda i due inglesi Eric Liddel e Harold Abrahams, entrambi sprinters, molto amici e grandi favoriti dei 100 m. I due, molto diversi caratterialmente (schivo e riservato Liddel, spavaldo ed estroverso Abrahams), si trovarono alla resa dei conti nella consueta finale domenicale. Liddel, religiosissimo, decise di rispettare il giorno del Signore e ritirandosi lasciò la strada spianata all’amico. Fallita anche la prova dei 200 m (troppo forti gli americani Scholz e Paddock), fu decisiva la scelta del capo della spedizione britannica, che iscrisse Liddel anche alla gara dei 400 m, pur avendo quest’ultimo poche cache di vittoria. La gara dell’inglese, però, fu stupefacente e la sua leggendaria resistenza finale gli valse la medaglia d’oro.
Come in ogni Olimpiade che si rispetti, anche Parigi 1924 porta con sé aneddoti simpatici e alcune curiosità. Nel calcio, per esempio, l’azzurro Virginio Levratto colpì al volto il portiere lussemburghese Bausch, staccandogli un pezzettino di lingua. Alcuni minuti dopo, lo stesso Levratto si trovò a due passi dal portiere, che impaurito dall’episodio precedente si coprì goffamente il volto con le mani inducendo all’errore l’incredulo azzurro. Nei 440 m a ostacoli il record del mondo fu realizzato dal secondo classificato, dal momento in cui il vincitore, l’americano Taylo, si vide omologare l’oro ma non il miglior tempo in quanto reo di aver abbattuto un ostacolo. Nel tiro al bersaglio, infine, solo una improvvisa malattia impedì al settantasettene svedese Oscar Swahn di gareggiare e di infrangere il record di “meno giovane vincitore di medaglie in assoluto”, da lui stabilito quattro anni prima ad Anversa.
Dei 3076 partecipanti, l’Italia fu presente con 201 atleti, un record per le spedizioni azzurre. Il bilancio di Parigi 1924 fu però leggermente al di sotto delle aspettative con 16 medaglie (8 ori, 3 argenti e 5 bronzi) contro le 24 di Anversa. Un po’ a sorpresa, il maggior numero di ori lo conquistò il sollevamento pesi grazie a Pierino Gabetti, Carlo Galimberti e Giuseppe Tonani. Nel ciclismo ci fu la conferma del quartetto formato da Martino, Dinale, Mengazzi e Zucchetti, oro nella prova di “inseguimento a squadre”, cui seguì anche la conferma nella 10 km del marciatore Ugo Frigerio, già oro ad Anversa. Discreti risultati giunsero anche dall’atletica, grazie alle ottime prove di Francesco Martino (oro agli anelli) e di Giorgio Zampori (bronzo alle parallele), oltre all’argento nella maratona di Romeo Bertini, un contadino di Gessate. Infine il capitolo scherma, dove le cose andarono meno bene di quattro anni prima. I fratelli Nadi erano da poco passati al professionismo, inoltre alcune evidenti “sviste” arbitrali nei confronti dei padroni di casa furono benzina sul fuoco per i nuovi dictat del regime fascista. E’ quanto accadde nella gara a squadre di fioretto, quando la squadra azzurra abbandonò la sala dopo un punto dubbio, cantando “Giovinezza” e venne esclusa dalla gara individuale, dove passeggiò il francese Ducret. Quando si passò alla spada, gli animi erano già caldi e anche il bronzo, nella gara a squadre, fu pieno di polemiche. Il momento topico, come era da aspettarsi, si raggiunse il 15 di luglio, quando fu il momento della sciabola. In finale, per la gara a squadre, la compagine italiana dovette vedersela con gli ungheresi guidati dal “giuda” Italo Santelli. La gara fu palpitante e si tinse di azzurro grazie a poche, decisive stoccate. Il tentativo di confermare l’oro anche nella gara individuale si spense a causa di un litigio fra il nostro Oreste Puliti ed il giudice ungherese Kovacs, che ebbe strascichi notevoli non solo in riferimento alla gara (scontata la squalifica per gli italiani) ma anche su un piano squisitamente diplomatico.
Alcuni giorno dopo calava il sipario su un’edizione tutto sommato positiva, piena di spunti per il futuro ma anche di tanti interrogativi che l’addio di de Coubertin lasciava inevitabilmente dietro di sé.