Amarcord

Monaco 1972, l’Olimpiade di mezza Germania

A Berlino nel 1936 la fiamma olimpica ardeva in mezzo alle svastiche, il segno di una Germania di ritrovata potenza e orgoglio, il segno di una Germania che di lì a poco avrebbe stravolto il mondo trascinandolo in una guerra folle e dalle ferite calde persino oggi. Il ritorno in terra tedesca dei cinque cerchi olimpici avvenne – ironia dei numeri – 36 anni dopo quel ’36, nel 1972 nella capitale del più ricco land di tutta la nazione: Monaco di Baviera.

Trentasei anni non sono poi tanti misurati sulla lenta linea della storia, ma nel pazzo secolo ventesimo bastarono eccome a trasformare radicalmente la pomposa e belligerante Germania del terzo Reich in quella sconquassata nell’identità della Repubblica Federale con capitale a Bonn, governata e rappresentata nel mondo dal cancelliere Herbert Ernst Karl Frahm, al secolo Willy Brandt. Era per la verità pure una mezza Germania, quella che gli abili scacchieri della ricostruzione post-bellica avevano assegnato al campo liberale e capitalista, contrapposta alla Germania socialista costituita nella parte orientale e che si era tenuta Berlino, anche se non tutta.

All’alba di quel 1972 la ferita di quella Germania spezzata per la verità andava lenendosi, proprio grazie all’opera diplomatica di Willy Brandt che un anno prima aveva conquistato il premio Nobel per la pace meritato per la sua famosa Ostpolitik: i gesti distensivi rivolti alla Germania Est e al blocco sovietico nel suo complesso simboleggiati da un niente affatto banale riconoscimento delle colpe tedesche nel conflitto mondiale con l’omaggio rivolto in ginocchio di fronte al monumento che commemora le vittime dell’insurrezione del ghetto di Varsavia.

Nonostante si siano svolti nel cuore dell’Europa ferita, in uno dei poli del magnete della guerra fredda, i Giochi della XX Olimpiade furono relativamente distesi e le scaramucce geopolitiche restarono un po’ a margine, perlomeno nella loro forma più consueta. A turbare la pace olimpica fu invece un cruento episodio dalla natura anch’essa geopolitica se vogliamo, ma traslata su un conflitto allora meno visibile, quello israelo-palestinese e che portò ai Giochi l’ombra di un episodio divenuto famoso come il Massacro di Monaco.

Monaco 1972Il Massacro in questione, ben noto alle cronache, consistette nell’uccisione da parte del gruppo armato palestinese noto come Settembre Nero di undici atleti israeliani di cui due freddati durante il tentativo di cattura e gli altri nove rimasti uccisi durante il maldestro blitz di liberazione da parte della polizia tedesca che portò alla morte anche di cinque feddayin e di un poliziotto. L’evento, inserito in un contesto internazionale che aveva appena visto finire la guerra dei sei giorni e preparava quella dello Yom Kippur, ebbe ripercussioni più grandi dell’orizzonte olimpico e con un respiro che non compete a questo articolo. I Giochi, seppur vivacemente turbati dagli eventi e trascinati in un dibattito sulla sicurezza degli atleti, si svolsero in maniera piuttosto regolare Massacro di Monacoregalando le consuete emozioni di uno spettacolo olimpico, seppur macchiato di sangue innocente.

Monaco fu tappa di grandi ritorni, uno in particolare da parte della grande tradizione podistica finlandese spezzata da quel fulmine insensato che prendeva il nome e le sembianze del cecoslovacco Emil Zatopek. Dopo i fasti di Paavo Nurmi fu la volta di Lasse Viren, poliziotto nella sua Myrskyla (2.011 abitanti da ultimo censimento disponibile) e corridore indomito, capace di conquistare a Monaco l’oro olimpico nei 5000 e nei 10.000 metri piani, impresa che prima di lui avevano raggiunto solo – per l’appunto – Zatopek e Nurmi oltre al sovietico Vladimir Kuc (durante i giochi di Melbourne nel 1956). Viren avrebbe ripetuto la doppietta anche a Montreal quattro anni dopo. A partire da Monaco i finlandesi avevano ricominciato a volare.

Non rinunciarono a un ruolo da protagonisti gli atleti di casa che pur nel medagliere dovettero cedere il passo oltre ai colossi sovietico e americano anche ai cugini della DDR. Le soddisfazioni nell’Olimpiade domestica i tedeschi dell’ovest se le presero, per così dire, di sponda come ad esempio accadde con la vittoria nel salto in alto femminile della giovanissima e promettente Ulrike Meyfarth. La Meyfarth, a 16 anni e 123 giorni di vita, era arrivata ai Giochi della XX Olimpiade con l’obiettivo di fare giusto un po’ di esperienza internazionale nella calda alcova di una competizione tra le mura amiche. Per lei, che aveva adottato la tecnica di salto di spalle alla Fosbury, la storia volle tutt’altro: spinta anche dal pubblico di Monaco la giovane Ulrike riuscì a saltare 1,92 m superando di 7cm il suo record personale, eguagliando quello mondiale e conquistando un oro che definire insperato è dir poco. Il lampo da giovane prodigio per altro non fu un auspicio dei migliori per la sua carriera, non all’altezza delle scintillanti aspettative e che la portò “solo” a un altro titolo olimpico dodici anni dopo a Los Angeles.

I Giochi della XX Olimpiade furono anche quelli che celebrarono due eroi d’oltreoceano, profondamente diversi ma ugualmente amati dalle rispettive nazioni: il pugile cubano Teofilo Stevenson e il nuotatore yankee Mark Spitz.

Si dice che Stevenson a Cuba fosse meno famoso solo di Fidel Castro in persona, il pugile buono, dedito alla causa socialista e alle sorti del popolo cubano, che aveva scelto di rinunciare al professionismo e alla possibilità di battersi con Muhammad Alì per il titolo dei pesi massimi preferendo rimanere formalmente un dilettante, un uomo del pueblo. Monaco sancì la sua gloria tributandogli l’oro olimpico. La corsa alla medaglia fu beffarda, consegnatagli per ritiro preventivo del suo avversario in finale – il rumeno Ion Alexe – ma l’incontro vinto nei quarti contro il rivale americano Duane Bobick in un combattimento avvincente valse per lui e per il pubblico cubano le emozioni e la gloria di una finale anticipata.

Mark Spitz, il baffuto fidanzato d’America, non si limitò a vincere una medaglia d’oro ma arrivò a conquistarne addirittura sette mantenendo un record che nel nuoto è riuscito a strappargli nel 2008 solo l’alieno Michael Phelps. Velocista puro come Phelps, Spitz fendeva l’acqua ignaro probabilmente di quanto avrebbero avuto da ridire sui suoi baffi e la loro resistenza aerodinamica anni dopo gli esperti di meccanica di mezzo mondo. Furono suoi a Monaco i titoli nei 100 m e 200 m stile libero, nei 100 m e 200 m delfino e nelle tre staffette 4×100 m stile libero, 4×200 m stile libero e 4×100 misti. L’impresa, storica, lo consumò a tal punto che subito dopo quell’Olimpiade Spitz decise di abbandonare il nuoto agonistico a solo 22 anni, consapevole forse che ormai c’era ben poco che gli restava da vincere.

Le piscine dell’Olympia Schwimmhalle per altro non furono parche di soddisfazioni nemmeno per i colori azzurri con la conferma al titolo nei tuffi dalla piattaforma da 10 m ad opera dell’altoatesino Klaus Dibiasi e con le tre medaglie (argento nei 400 m stile libero, bronzo negli 800 m stile libero e nei 400 m misti) conquistati da una giovanissima Novella Calligaris, prima nuotatrice italiana a medaglia nella storia dei Giochi Olimpici.

Se è vero come si diceva all’inizio che la guerra fredda rimase praticamente estranea ai Giochi della XX Olimpiade a fare di tutto per farcela entrare fu il torneo di basket maschile. Stati Uniti e Unione Sovietica si incontrarono in finale, come solo nei migliori sogni degli sceneggiatori più annoiati di Hollywood ma rispetto alla cinematografia di quei tempi il risultato fu beffardo e fu la bandiera rossa a svettare sopra il gradino più alto del podio. Per la verità su quel podio gli Stati Uniti non si presentarono nemmeno, furiosi per la controversa gestione dei minuti finali e che al suono della sirena aveva consegnato i punti decisivi proprio ai sovietici. A capitanare la protesta fu Kenneth Davis, guardia e capitano del team a stelle e strisce, una modesta carriera fermatasi alle porte del professionismo dopo che era stato selezionato al draft del 1971 dai New York Knicks ma mai ingaggiato. Davis insistette perché le medaglie non venissero nemmeno ritirate e fece mettere per iscritto che mai, nemmeno dopo la sua morte, la moglie i figli o altri eredi avrebbero dovuto accettare quella medaglia d’argento, simbolo cocente di una beffa che sapeva d’ingiustizia.

Le due Germanie sarebbero state tali ancora per quattro giri di lancetta olimpici prima della riunificazione programmata dalla capricciosa Storia del secolo XX per l’anno 1990, i segni distensivi dei Giochi di Monaco e della politica di Brandt avrebbero dovuto aspettare ancora diciotto anni prima che una finale di pallacanestro olimpica potesse finire senza amarezza e ripicca da superpotenze in conflitto espresse dalla rabbia di una modesta guardia nativa del Kentucky mai diventata professionista.

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