Amarcord

Messico 1968, venti di protesta e pugni chiusi

Messicoa 1968 - Tommie Smith, John Carlos e Peter Norman

Nel 1968 il mondo intero fu travolto da un’incessante spinta libertaria: dagli studi di Piaget sulla psicologia infantile si passò a don Milani e alla scuola di Barbiana; Mary Quant fece indossare a Leslie Hornby, diciassettenne parrucchiera di Blackheath, la prima minigonna della storia, i giovani si fecero crescere i capelli, impazzendo per il rock e la trasgressione. Tirò un vento nuovo anche dall’Olanda, alimentato con forza dai tipici mulini, dove il movimento dei Provos (i “provocatori”) diffuse la bicicletta insieme ad ideali eversivi, questa volta non dal punto di vista politico ma da quello del costume. Fuori l’anacronistico egoismo e spazio alla solidarietà, alla libertà di scelta individuale, alla libertà sessuale. Un’idea internazionale, internazionalista, policulturale e interclassista, un cocktail letale di componenti che si tradusse in una feroce critica della cultura borghese. La ricerca di miti e di ideologie funzionali alle problematiche del momento portò con sé l’interesse per le rivoluzioni, la venerazione di personaggi come Marcuse e Marx, l’appoggio alle forze di liberazione dal colonialismo (che allora procedevano a vele spiegate).

Su tutti il Vietnam, che dopo aver sconfitto la Francia si prendeva il lusso di buttare a mare l’esercito degli USA e di creare all’interno degli States un movimento di opposizione che saldava gli interessi dei giovani bianchi a quelli dei neri. Un movimento che culminò nella rivolta dei campus e nel rifiuto a partire per il fronte. Ahi, Zio Sam. Nel frattempo, in Messico, prendeva il via l’edizione numero XIX dei Giochi Olimpici dell’era moderna. Come già accaduto per Tokyo 1964, anche Città del Messico venne scelta in un Congresso del Cio svoltosi in Germania, a Baden Baden, nel 1963. La capitale messicana sbaragliò la concorrenza delle più accreditate Buenos Aires e Detroit, e dopo alcune riserve avanzate in merito alle proibitive condizioni climatiche (prontamente fugate con l’ovvia considerazione per cui “se qui, a 2280 metri sul livello del mare, milioni di persone ci vivono, allora poche migliaia ci possono gareggiare”), il 12 ottobre si tenne la (sobria) cerimonia di inaugurazione.

La prima Olimpiade ospitata da una città latinoamericana ebbe comunque una connotazione politica che superò drammaticamente quella sportiva, sia prima (con la strage di Tlatelolco, in cui persero la vita diverse centinaia di giovani messicani negli scontri a fuoco con l’esercito) che durante le gare, con protagonisti assoluti gli studenti messicani e gli atleti della rappresentativa statunitense, in modo particolare i neri dello sprint. Anche lo sport, al dunque, ebbe il suo Sessantotto.

Ancora una volta i Giochi furono lo specchio del mondo e riuscirono, tramite le storie di campioni e uomini straordinari, a regalare un motivo di speranza. Come quella di Vera Caslavaska, la pluridecorata ginnasta cecoslovacca che arrivava in Messico dopo un periodo molto particolare. Ad aprile aveva firmato la “Lettera delle duemila parole”, il documento simbolo della sollevazione cecoslovacca contro la tirannia sovietica. Per sfuggire all’arresto dovette rifugiarsi sulle montagne, continuando imperterrita ad allenarsi usando gli alberi come attrezzi. Riuscì, in extremis, ad ottenere un permesso dal governo per partire alla volta del Messico, dove vinse tutto: concorso generale, volteggio, corpo libero e parallele, cui si aggiunsero anche due argenti.

Come era facile immaginare, l’attenzione ricadde in modo particolare sull’atletica leggera. L’impresa storica, quella ai limiti del surreale, portò la firma di Bob Beamon, nero statunitense, che con i suoi 8,90 nel salto in lungo si mise l’oro al collo ed entrò dritto nella legenda. Il suo volo sfuggì a molti dei presenti allo stadio, oscurati dall’andirivieni di atleti davanti alla pedana del miracolo. A quanto pare, poi, l’entità biblica del salto sfuggì anche al diretto interessato, che solo dopo aver tradotto i “metri” in “pollici” iniziò a danzare come un matto.

Se i salti in piano, come quello di Beamon, e le prove di sprint furono avvantaggiate dall’aria rarefatta (nel salto triplo il romano Giuseppe Gentile, il sovietico Viktor Saneyev ed il brasiliano Nelson Prudencio si strapparono a ripetizione il record del mondo), l’effetto contrario si ebbe nelle corse “lunghe”, fortemente condizionate dalla povertà di ossigeno. Fecero così bottino pieno gli atleti nati e cresciuti in alta montagna, in primo luogo etiopi e kenyoti. I Giochi di Messico 1968 segnarono l’avvento dell’Africa sulle scene massime dell’atletica leggera. Gli atleti africani vinsero tutte le gare del mezzofondo e del fondo, dai 1500 m alla maratona.

Fu però una data a restare impressa nella memoria di tutti. Il 16 ottobre 1968, in un pomeriggio caldo e nuvoloso, gli americani Tommie Smith e John Carlos (primo e terzo nella finale maschile dei 200 metri) svegliarono il mondo dai gradini di un podio olimpico, urlando in silenzio il loro basta alle politiche razziali e all’atteggiamento di un’America che concedeva dignità ai suoi atleti di colore solo in cambio di successi sportivi. Si presentarono alla premiazione senza scarpe, con calze nere, un braccio alzato al cielo e il pugno, sinistro quello di Smith e destro quello di Carlos, serrato in un guanto nero, tenendo la testa bassa durante l’inno, con gli occhi alla medaglia e non alla bandiera. Il pubblicò fischiò, applaudì, pianse, strillò. La reazione del CIO fu immediata. I due atleti furono sospesi dalla squadra americana ed espulsi dal villaggio olimpico. Stessa sorte toccò all’australiano Peter Norman, argento in quella gara, che informato della protesta suggerì ai suoi “fratelli” di dividersi un guanto per uno e si appuntò sul petto la spilla del “Progetto Olimpico per i diritti umani”. Dopo di loro, lo sport non sarebbe stato più lo stesso.

A Città del Messico iniziò una nuova era anche per il salto in alto. Ad aprirla ci pensò un giovane americano, Dick Fosbury, che mise sottosopra la tecnica usata fino a quel momento. Fosbury scavalcò l’asta di schiena, anziché centralmente come fatto da tutti e la sua invenzione sembrò funzionare alla grande, richiamando l’attenzione di tutti. 2 metri e 24, l’oro, e la consapevolezza di aver aperto un varco verso il futuro.

Anche la boxe lanciò qui un grande massimo, George Foreman, che farà la storia da professionista, sarà più volte campione del mondo e desterà scalpore per i suoi combattimenti in tardissima età.

Dalla piscina emersero le prime bracciate dello spavaldo Mark Spitz, un americano arrivato in Messico fra record e grandi proclami ma che alla fine vinse solo nelle staffette, avendo comunque modo di rifarsi più avanti. Il doppio oro nei 100 e 200 m stile libero andò all’australiano Wenden.

Si violò, per la prima volta, il tabù doping. Ad essere pizzicato e per un motivo banalissimo fu lo svedese Liljenwall, specialista nel pentathlon. Un drink di troppo fece scattare un tasso alcolico sopra soglia, la squalifica fu immediata e senza alcuna possibilità di appello.

La spedizione azzurra dovette accontentarsi di uno dei forzieri più miseri della storia olimpica, con solo 3 ori, 4 argenti e 9 bronzi. Le vittorie, però, furono nobilissime, in specialità classiche e tipiche della tradizione italiana (canottaggio, ciclismo e tuffi). Nessun oro, invece, nella scherma, dove i nostri, se non vincono, rischiano di deludere. E così fu.

Nonostante tutto i Giochi si chiusero con spettatori ed atleti al centro dello stadio Olimpico per ballare e cantare insieme. Un segnale era stato lanciato, ma per coglierne i frutti si sarebbe dovuto attendere ancora un po’.

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