Non c’è due senza tre. Dopo Montreal 1976 e Mosca 1980, anche i Giochi Olimpici di Los Angeles furono dominati dalla politica. Boicottaggi mascherati, doppi giochi, inviti e divieti fecero ancora una volta la parte del protagonista, relegando ai margini lo “spirito olimpico”e i suoi storici corollari: partecipazione, lealtà, amicizia, rispetto, uguaglianza e pace. La differenza fra “dentro” e “dietro” la competizione fu ancora una volta abissale e ad uscire dal palco a testa bassa, a conferma di una triste prassi ormai consolidata, furono solamente produttori e registi di questi quindici giorni nella più grande metropoli californiana.
Los Angeles per ottenere i Giochi dovette semplicemente candidarsi. La resistenza di Teheran fu debolissima e i Cinque Cerchi tornarono a volteggiare in California dopo 52 anni. Ma si era appena al punto di partenza. Il presidente del CIO, lo spagnolo Juan Antonio Samaranch, sapeva cosa avrebbe potuto significare il “no” di Carter ai Giochi moscoviti di quattro anni prima e ben presto si armò di ago e filo per tentare di ricucire i rapporti con il blocco dell’Est. I primi, preoccupanti segnali, non tardarono ad arrivare. Nell’ottobre del 1983, infatti, il quotidiano russo Izvyestiya segnalò le condizioni anormali in cui si sarebbero svolti i Giochi americani, alcune presunte violazioni della Carta Olimpica (soprattutto a seguito del rifiuto del visto d’ingresso ad un membro del comitato, ritenuto dagli USA un agente segreto del KGB) e numerose limitazioni di movimento dei sovietici previste dalle leggi di stato. Era solo questione di giorni. L’8 maggio del 1984, nascosta dal trasparentissimo velo delle “scarse misure di sicurezza”, la Russia (e con lei numerosi altri stati fra i quali Ungheria, Polonia, Iran e Corea del Nord) decise di non partire per gli Stati Uniti. Giustizia, a modo loro, era fatta. Ma a che prezzo?
Dell’organizzazione della kermesse se ne occupò un privato cittadino, Peter Ueberroth (che la rivista Time eleggerà uomo dell’anno), un pezzo grosso del baseball professionistico. Il commissioner mise in piedi l’intera manifestazione senza chiedere allo Stato nemmeno un dollaro. Le fonti dei suoi finanziamenti furono le più disparate, dagli sponsor alle televisioni. L’ABC Company pagò oltre 200 milioni di dollari per avere i primi diritti sulle gare, mentre i marchi più famosi del mondo misero la firma su palazzetti dello sport, stadi, piscine e velodromi, contravvenendo alle rigide (!?) regole del CIO sul divieto di sponsorizzazioni esplicite. In poco tempo vennero costruiti impianti ai limiti della legalità, violando a più riprese le norme base poste a tutela non solo del pubblico ma anche degli atleti stessi. La vigilanza fu affidata ad un gruppo di volontari.
La cerimonia inaugurale del 28 luglio si tenne al Los Angeles Memorial Coliseum, come cinquant’anni prima. Si doveva battere l’Unione Sovietica anche quanto allo spettacolo, e così fu. La commissione ingaggiò professionisti d’intrattenimento di Hollywood ed in pochissimo tempo venne realizzato un musical che raccontava la storia degli Stati Uniti d’America attraverso i secoli. Un uomo volante si liberò sullo stadio affidandosi alla propulsione di uno zainetto-jet portato sulle spalle, un emozionato Edwin Moses lesse il giuramento degli atleti e il presidente Reagan dichiarò ufficialmente aperti i XXIII Giochi olimpici dell’Era Moderna.
Nonostante tutto fu una grande edizione, con gare ed atleti di alto livello. Protagonista indiscusso fu un ventitreenne dell’Alabama, Carl Lewis, che fece rivivere le gesta di Jesse Owens a Berlino nel 1936. Il “Figlio del Vento” attirò su di sé gli occhi del mondo intero. Scese sulla pista del Coliseum tredici volte in otto giorni. E non sbagliò nulla. Suoi i 100 metri in 9.99, i 200 con un incredibile 19.80, il salto in lungo con 8.54 e la staffetta con il primato mondiale di 37.83. Bello ed altero, Lewis correva per diventare ricco. Sembrava quasi non sforzarsi più di tanto in pista e proprio per questo motivo, forse, non riuscì mai a guadagnarsi le simpatie di tutti.
Come era facile preventivare il boicottaggio, in modo particolare quello dei sovietici e della Germania dell’Est, svuotò di valore alcuni ordini di arrivo. Si rividero quelli che avevano rinunciato a Mosca, su tutti Edwin Moses, il “Profeta della solitudine” (faceva sempre gara a sé), che tornò ad imporsi nei 400 metri a ostacoli. Nel mezzofondo si ripropose il duello britannico fra Coe e Ovett, con il primo oro nei 1500 m e secondo negli 800, dietro al brasiliano Cruz. Nei 5000 m si affermò un grande atleta, il marocchino Said Aouita, che lascerà il segno anche in futuro.
Per quel che riguarda il nuoto, i nordamericani riuscirono ad attenuare le conseguenze dell’assenza dei tedeschi orientali grazie all’aiuto di un tedesco occidentale. Dalla piscina, infatti, uscì fuori il nome di Michael Gross, detto “albatros” per l’ampiezza delle sue bracciate, oro nei 100 farfalla e nei 200 stile libero. Non tuffi, ma vere e proprie opere d’arte quelle dell’americano Greg Louganis, meraviglioso danzatore prestato al trampolino. Ad entusiasmare la folla ci pensarono anche altri beniamini locali, i più bravi di tutti a volare a canestro: Chris Mullin, Pat Ewing, ma soprattutto Michael Jordan (foto a lato), allora solo un gruppo di talentuosi universitari, destinati, poi, a scrivere la storia dell’NBA. Insolita riserva di caccia fu per gli USA il ciclismo, dove gli atleti di casa si aggiudicarono numerose medaglie. Il pugilato, ancora una volta, presentò il suo campione olimpico destinato al grande mercato della boxe professionistica: Evander Holyfield.
Nessuna medaglia ma tanto, tanto cuore nelle tristi storie di Mary Decker e Gabriela Andersen Schiess. La prima, una minuta mezzofondista americana falcidiata dagli infortuni, si presentò a Los Angeles dopo l’ennesimo recupero ma a metà della finale dei 3000 m un contatto con l’altra favorita, la britannica Zola Budd, le costò una volta per tutte il più grande sogno della sua vita. La svizzera Andersen-Schiess, invece, una sorta di proiezione futura dell’azzurro Dorando Pietri, terminò la maratona entrando nello stadio in preda ad una fortissima disidratazione, riuscendo comunque a finire la gara (vinta dall’americana Joan Benoit) zigzagando sulla pista con le braccia ciondolanti.
Piccolo, grande neo del blocco orientale dei “rinunciatari”, la Romania attirò parecchie simpatie a Los Angeles, ottenendo anche risultati strepitosi che le diedero la seconda piazza nel medagliere della manifestazione (ben 53 complessive). Le giovani eredi di Nadia Comaneci portarono a casa quattro ori con Ecaterina Szabo, uno a pari merito con la connazionale Puica. Altri ori giunsero da canottaggio e canoa ma anche dall’atletica, dove oltre alla stessa Puica si imposero anche Doina Melinte negli 880 m e la Stanciu nel salto in lungo.
Il risultato della spedizione azzurra a Los Angeles fu uno dei migliori di sempre (32 medaglie e quarto posto a pari merito con la Cina). Alessandro Antei (lancio del peso), Alberto Cova (10000 m) e Gabriella Dorio (1500m) furono i 3 ori provenienti da un’atletica pronta ad applaudire ancora la grande Sara Simeoni (argento nel salto in alto appena dietro la tedesca Meyfarth). Negli Stati Uniti iniziò la grande avventura dei fratelli Carmine e Giuseppe Abbagnale con il timoniere Di Capua nel 2 con di canottaggio. I due lasciarono la barca rumena a 5 secondi, divenendo presto un simbolo di questo sport, pieno di sacrifici e avaro di gloria. Fuori gioco il blocco dell’Est, la scherma tornò ad essere terreno di conquiste. Mauro Numa, carabiniere mestrino, fu il grande mattatore con il doppio oro nel fioretto individuale e a squadre, con Cerioni bronzo. Nella sciabola oro solo a squadre e argento per Gianfranco Marin (sconfitto dal francese Lamour). Bronzo per Dorina Vaccaroni nel fioretto. Oro anche per uno stoico Daniele Masala nel pentathlon e per il quartetto formato da Eros Poli, Marco Giovanetti, ClaudioRandelli e Marcello Bartalini nella 100 km di ciclismo. Ancora ori dalla lotta greco-romana con Vincenzo Maenza, dal pugilato con Maurizio Stecca e dal sollevamento pesi con Norberto Oberburger.
Quattro anni più tardi, a Seul, USA, URSS e Germania Est si ritroveranno l’una contro l’altra.