Ha paura Greg Louganis quando si avvicina al trampolino. È il nono tuffo dell’infinita eliminatoria verso la finale del trampolino da tre metri ai Giochi Olimpici di Seoul 1988. È normale avere paura prima di un tuffo così, un triplo e mezzo rovesciato carpiato: si parte fronte all’acqua ma si gira all’indietro, con la testa che torna verso il trampolino. In fondo, è uno dei tuffi più difficili di tutto il programma del trampolino e della piattaforma: per i giudici è il 307C, per il mondo è “il Tuffo della Morte”, uno dei più difficili in programma (coefficiente 3.5). Louganis è stato uno dei primi a lavorarci, da quando l’hanno introdotto nel programma internazionale nel 1982. Quando si affaccia sul trampolino, pensa al terrore paralizzante che l’ha bloccato la prima volta che è salito sulla piattaforma da dieci metri per eseguirlo.
Magari pensa al 1983, ai Mondiali Universitari di Edmonton. Sono in due a portare il 307C dalla piattaforma, lui e il sovietico Sergei Chalibashvili, che deve eseguirlo appena prima di Louganis. Greg è concentrato, non guarda. Il botto lo sente soltanto, avverte la piattaforma che trema, poi l’acqua diventa rossa e non si può più guardare. Poi tutto diventa rosso e non si deve guardare. Chalibashvili non si è dato abbastanza spazio, nella rotazione ha sbattuto con la testa sul blocco di cemento e non riprenderà più conoscenza.
Ha avuto paura per tutta la vita, Louganis. I suoi genitori, papà delle Samoa, mamma svedese, hanno 15 anni quando nasce. Dopo 8 mesi lo danno in adozione a Peter e Frances Louganis. Ma Peter ha problemi con l’alcol, il loro rapporto è problematico da subito. Greg soffre di asma, di molteplici allergie (polline, peli di animale, molti alimenti). Un medico propone alla famiglia adottiva di portare Greg a danza. A tre anni e mezzo, già esegue numeri da solo. È dislessico, anche se la scuola gli diagnostica solo un ritardo nell’apprendimento: i compagni lo chiamano “frocio”, “ritardato” o “negro”, per quella carnagione un po’ scura che ha preso dal padre. A nove anni comincia a fumare, e poco più in là a bere. Soffre di depressione, tenterà tre volte il suicidio. “C’è una sola certezza riguardo la paura” ha detto, “prima o poi devi affrontarla“. Greg ha anche il terrore dei serpenti e reagisce come in pochi avrebbero fatto. Compra un boa constrictor e gli dà da mangiare pulcini morti tutti i giorni finché la paura sparisce.
L’acqua lo salva. A nove anni, i medici gli avevano detto di smettere con la ginnastica perché le ginocchia si stavano sviluppando male. Greg li ignora, ma le gambe gli restano un po’ storte. Durante i tuffi, anche quando ha la testa incassata nella raggruppatura o nella carpiatura, può vedere uno spiraglio di luce, prendere i giusti riferimenti. La piccola malformazione diventa un enorme vantaggio competitivo. Nel 1975 incontra Sammy Lee, medaglia d’oro nel 1948 e 1952. “La prima volta che l’ho visto” ha detto al Guardian, “ho capito che, con il giusto coach, Greg sarebbe potuto diventare il più grande tuffatore della storia”. Lee inizia a lavorare con lui per preparare i Giochi di Montreal. Nella finale dal trampolino soffre di mal di denti e arriva sesto. Chiede aiuto a un dentista, ma teme i controlli antidoping e rifiuta gli antidolorifici. Dalla piattaforma vince l’argento dietro Klaus Dibiasi. “Fra quattro anni sarai tu al posto mio” gli sussurra il campione italiano.
L’invasione sovietica in Afghanistan e il boicottaggio Usa ai Giochi di Mosca fanno avverare la profezia solo a LosAngeles: dalla piattaforma chiude con 751.41 punti, oltre 100 in più del secondo; dal trampolino con 710.91, che è a tutt’oggi il più alto dall’avvento dell’attuale sistema di punteggio. Ai Mondiali di Guayaquil due anni prima aveva già riscritto la storia: è suo il primo “perfect 10” nella storia dei tuffi.
Ogni passo di rincorsa prima del Tuffo della Morte è un passo in meno. Ogni tuffo completato è un tuffo in meno prima dell’addio. Perché Greg ha già deciso: dopo Seoul si ritira. Ha deciso perché ha un segreto. È gay, ma lo sanno solo coach O’Brien e pochi altri. Ha una relazione violenta con il suo business manager, Jim Babbitt, che lo picchia e lo deruba minacciando di rivelare il suo segreto se dovesse lasciarlo. E da sei mesi ne ha un altro, ma di questo non parla con nessuno. Se l’avesse rivelato al comitato olimpico Usa come avrebbe dovuto prima dei Giochi, in Corea del Sud non l’avrebbero nemmeno fatto entrare. E poi, ammetterà O’Brien, “ci sarebbe stato solo un rischio infinitesimale in caso di ferita aperta: ma quante volte un tuffatore si ferisce in una gara?”.
“Ho sentito un tonfo sordo” ricorda Louganis, “e sono precipitato verso l’acqua. Ho pensato: cos’era? Era la mia testa?”. Ci mette poco a capire che, sì, è proprio la sua testa. “Quel giorno è stato ferito soprattutto il mio orgoglio” ricorderà anni dopo.
Si apre una ferita. Sanguina. Il medico, James Puffer, ha dieci minuti per ricucirgli la ferita. “Ho deciso di intervenire senza guanti, non potevo aspettare altrimenti Greg avrebbe corso il rischio di non poter riprendere la gara”. Adesso sì che Greg ha paura. “Volevo gridare a tutti: non toccatemi!” racconterà, “ma sapevo quanto sarebbe stato inappropriato”. Così Puffer non sa che sta venendo a contatto, a mani nude, con il sangue di un sieropositivo.
Greg ha scoperto da sei mesi di avere l’HIV come Babbitt. Il suo medico, che è anche suo cugino, gli prescrive un farmaco anti-retrovirale da prendere ogni quattro ore. Lo confesserà però solo nel 1995, anche a Puffer che immediatamente si sottoporrà a un controllo: l’esito sarà negativo. “Non so cosa sapesse dei rischi da HIV nell’acqua” dirà l’allora segretario della FINA Gunnar Werner. “Se sapeva che non ce n’erano, non vedo alcun pericolo nel mantenere il segreto. Ma se era solo spaventato e non sapeva quel che sarebbe potuto succedere, penso abbia corso un enorme rischio”. A ripensarci, ammetterà dopo la conferenza stampa Mike Moran, portavoce del comitato olimpico Usa, “è una questione privata fra l’atleta e le persone cui sceglie di rivelarlo. Non abbiamo intenzione di imporre test per l’HIV per poter competere. La gente deve capire che gli atleti rappresentano l’America, in tutti i suoi aspetti e le sue diversità”.
Una volta ricucito, Greg prende una decisione. “Abbiamo lavorato troppo perché io mi arrenda adesso” annuncia a O’Brien. Si ripresenta sul trampolino per un tuffo con tre avvitamenti. Il pubblico trattiene il fiato. L’esecuzione è spettacolare: 87.12 punti, il punteggio più alto della gara per un singolo tuffo. “Mi sono ispirato a un mio amico” scriverà anni dopo, “Ryan White”. È un ragazzo dell’Indiana affetto da emofilia di tipo A e deve ricevere trasfusioni settimanali di Fattore VIII. Nel dicembre 1984, a 13 anni, si ammala di polmonite e scopre di essere affetto da AIDS che, scoperta due anni prima, in America è ancora la malattia degli emofiliaci, degli eroinomani, degli omosessuali, degli haitiani, tanto che solo nel 1985 verranno introdotti i controlli preventivi sui donatori di sangue. Quando ritorna nella sua scuola, le famiglie trasferiscono molti dei figli in altri istituti. Così i White si trasferiscono a Cicero, dove trova un ambiente decisamente diverso e più pronto ad accoglierlo. A marzo di quel 1988, White ha fatto piangere l’America davanti alla Commissione per l’AIDS. “A 13 anni ho visto in faccia la morte. I dottori mi hanno dato sei mesi di vita e io mi sono dato obiettivi alti. Ho preso la decisione di vivere una vita normale, di andare a scuola e stare con i miei amici. Sapevo che non sarebbe stato facile. Tutti volevano la garanzia assoluta e totale che il contatto casuale non causasse contagio. Ma non esistono garanzie del 100% nella vita. Io e la mia famiglia non proviamo odio per queste persone, perché abbiamo capito che sono vittime della loro ignoranza. Crediamo che con la pazienza, la comprensione, l’educazione, io e la mia famiglia possiamo cambiare la mentalità e l’atteggiamento delle persone intorno a noi”.
Saranno proprio le confessioni di Louganis, di Magic Johnson, di Arthur Ashe a cambiare la percezione dell’America e del mondo verso una malattia che, come tutte, può colpire anche i migliori.
Il resto, in quella finale olimpica a Seoul, è storia. Louganis vince l’oro dal trampolino con un margine di 25 punti sul cinese Tan Liangde. Molto più lottata la finale dalla piattaforma. Prima dell’ultima rotazione, in testa c’è il cinese Xiong Ni, 14 anni, che avrebbe vinto tre ori tra Atlanta e Sydney. Con l’ultimo tuffo ottiene 82.56 punti. Louganis ha bisogno della perfezione. E la trova: 86.70 punti, 1.14 più del cinese. “Mister Perfect” saluta i tuffi. E non servirebbe aggiungere che per l’addio ha scelto il triplo e mezzo rovesciato raggruppato, il Tuffo della Morte.