Sono partite in diciotto, per cambiare la storia. Sono arrivate ad Amsterdam dagli Stati Uniti per un’Olimpiade che segna l’inizio di una nuova era. È l’estate del 1928, il barone De Coubertin è solo presidente onorario del CIO, la Francia ha abbandonato la Ruhr, e a Locarno Briand e Streseman hanno firmato una pace che è valsa loro il Nobel e alla Germania l’ingresso nella Società delle Nazioni.
Dopo più di dieci anni di pressioni, nell’anno in cui Amelia Earnhardt diventa la prima donna a sorvolare l’Atlantico, il programma olimpico di atletica si apre per la prima volta alle gare femminili.
Per nove giorni, durante il viaggio per l’Olanda, sulla nave si possono vedere atleti che corrono, che saltano, che si allenano per la lotta. C’è anche una ragazzina che si sente quasi fuori posto, Elizabeth Robinson. Non ha ancora diciassette anni, è cresciuta nell’Illinois e non si è mai allontanata da casa. Fino a due mesi prima dei Giochi Olimpici, Elizabeth non sa nemmeno che esistono meeting di atletica per le donne.
Corre al massimo per andare a prendere il treno da Riverdale per Harvey, dove frequenta la Thornton Township High School. Un giorno è particolarmente in ritardo: sarà la sua fortuna. Non solo non perde il treno, ma la sua velocità non sfugge al professor Charles Price, il suo insegnante di biologia che è anche l’assistente dell’allenatore della squadra di atletica. Elizabeth è appassionata di musica e teatro ma accetta la proposta di Price e si iscrive a Chicago alle gare per entrare nel Women’s Athletic Club dell’Illinois.
Debutta sui 100 metri il 30 marzo e arriva seconda dietro Helen Filkey, all’epoca la migliore statunitense sulla distanza. Alla seconda gara, al Soldier Field di Chicago, eguaglia il record del mondo (12 secondi). Il 4 luglio, ai Trials di Newark, chiude seconda in 12”4 dietro Elta Cartwright. Per questo c’è anche lei, sull’improvvisata pista in linoleum da 400 metri che gira intorno al ponte della nave ad allenarsi per la prima Olimpiade aperta alle donne, nonostante l’opposizione anche di Papa Pio IX.
Partono in sei per la finale olimpica dei 100 metri. La canadese Myrtle Cook viene squalificata per due false partenze e scoppia in lacrime. Stessa sorte tocca anche alla tedesca Leni Schmidt, che aveva vinto la terza batteria e reagisce in modo molto diverso: alza il pugno verso lo starter e gli giura vendetta.
Alle 16 e 35, con ormai quattro sole atlete in gara, prende il via la finale dei 100 metri. Elizabeth, con gli occhi azzurri e i riccioli d’oro scompigliati dal vento, sfreccia e taglia per prima il traguardo. Vince in 12”2, davanti a Fanny Rosenfeld e Ethel Smith. È la prima donna a ricevere una medaglia d’oro alle Olimpiadi e sul podio scoppia in lacrime come una bambina.
Torna a casa anche con un argento in staffetta, proprio dietro al Canada di Cook. Il ritorno a casa è trionfale. “Betty” non è più la ragazza della porta accanto, è la diva che attraversa Broadway prima e State Street a Chicago poi in due spettacolari ticker-tape parade, le tipiche parate americane con i pezzetti di carta lanciati dalle finestre riservate fino all’omicidio Kennedy anche ai capi di Stato in visita negli Usa. “La scintillante combinazione di velocità e grazia di Elizabeth Robinson avrebbe potuto rivaleggiare con le doti della stessa Artemide sulla cima dell’Olimpo” scrive il generale McArthur, presidente del comitato olimpico Usa che le regala un piccolo mappamondo d’oro da usare come ornamento.
È un piccolo segno di quel mondo che intanto continua a cambiare sotto i suoi occhi, sotto le luci della Belle Epoque e l’ottimismo di Keynes che alla fine di quel 1928 descrive le “Possibilità economiche per i nostri nipoti” e immagina un 2028 in cui basta lavorare tre ore al giorno per godere di ricchezza e benessere. Un futuro che il mercoledì nero di Wall Street vestirà di nuovi e più cupi colori in un’America derubata e colpita al cuore. Un’America che però si vuole rialzare attraverso lo sport e ottiene di organizzare a Los Angeles le Olimpiadi del 1932.
È questo il nuovo traguardo di Elizabeth, che intanto continua a correre, continua a vincere e firmare nuovi record del mondo sulle 60, 70 e 200 yards. Il 28 giugno del 1931, Elizabeth vuole prendersi una giornata libera dagli allenamenti. Non è mai stata così in forma, e l’idea di andare magari a nuotare in una giornata caldissima come quella la attrae. Ai suoi allenatori, però, piace meno perché il nuoto attiva muscoli diversi rispetto alla corsa. Così chiede a suo cugino, Wilson Palmer, che ha appena preso la licenza di pilota, di accompagnarla per un giretto sul suo biplano.
Ma una volta raggiunta l’altezza di 400-600 piedi, il motore si spegne e l’aereo precipita. Elizabeth e Wilson vengono ritrovati sotto la carcassa del biplano, privi di conoscenza. “Babe” ha il braccio sinistro fratturato, la gamba sinistra maciullata e un taglio di una ventina di centimetri sulla fronte. Il primo a soccorrerla la crede morta, tanto che carica il corpo nel bagagliaio della sua macchina e lo porta da un becchino. A quei tempi, con la mania diffusa di inseguire record di volo su mezzi spesso impropri, in tanti si dedicavano a raccogliere cadaveri in cambio di un po’ di soldi. Il becchino però si accorge che Elizabeth in realtà è viva e la porta a Oak Forest, che tutti a Chicago chiamavano “Poor Farm”, un ospedale dove venivano curate malattie croniche, disabilità mentali, tubercolosi.
“L’osso della coscia è fratturato in diversi punti tra il ginocchio e l’anca” dice il dottor Jacob Minke. “Ci vorranno mesi anche solo per tornare a camminare”. Elizabeth resta in un letto d’ospedale undici settimane, tra lunghi periodi di incoscienza e brevi momenti di lucidità, poi per altri quattro mesi si muove solo su una carrozzina o con le stampelle. “Se non fossi stata così in forma prima dell’incidente, non sarei sopravvissuta” dirà anni dopo. Quando riprende a camminare, la gamba sinistra è un centimetro più corta della destra. I Giochi di Los Angeles restano un fiore non colto.
Elizabeth, però, non smette di correre e di guardare avanti. Inizia un altro viaggio, c’è un’altra città per vincere. L’orizzonte si sposta a Berlino, alle Olimpiadi del Fuhrer e della torcia che parte da Atene, delle svastiche e delle coreografie oceaniche, di Leni Riefenstahl e Jesse Owens. Le Olimpiadi cui gli Usa partecipano solo perché Avery Brundage, il presidente del comitato olimpico, si lascia convincere dell’assenza di violenze contro gli ebrei e di discriminazioni nel Reich.
La sua gamba è ancora rigida, e la menomazione che ancora la appesantisce le impedisce di piegarsi sui blocchi. Per questo si limita a correre la 4×100 con Harriet Bland, Annette Rogers e Helen Stephens, in terza frazione. È febbrile l’attesa per il duello fra gli Stati Uniti e la Germania, che poche settimane prima, il 21 giugno a Colonia, aveva stabilito il nuovo record del mondo in 46”5: primato poi ritoccato di un decimo nella batteria di semifinale.
La prima frazionista, Emmy Albus, è la migliore del quartetto tedesco e costruisce già un bel vantaggio alla prima curva. Il cambio con Kate Krauss è perfetto. Betty parte molto indietro rispetto a Marie Dollinger, che è sontuosa alla seconda curva. Al cambio, ha almeno dieci metri di vantaggio su Betty Robinson, che passa il testimone a Helen Stephens. Ma la tragedia è già successa.
Davanti a 100 mila spettatori, compreso il Fuhrer, Ilse Dörffeldt, l’ultima frazionista tedesca, rovina la gara della vita. La presa sul testimone non è abbastanza salda, il bastoncino cade. Ilse crolla a terra con la faccia affondata fra le mani che non possono mascherare le amare lacrime. Hitler, in tribuna, si batte i pugni sulle ginocchia per quella che, il giorno dopo, il Lindower Zeitung definirà “la disgrazia del Reich”, una campionessa che diventerà un’apprezzata insegnante di storia e morirà il 12 settembre 1992, in una Germania unificata, ma senza nessun funerale, nessuna cerimonia, e il ricordo di quel bastone a perseguitare la sua eredità.
“Anche senza quell’errore” dirà Betty Robinson anni dopo, “credo che Helen avrebbe potuto rimontare e vincere lo stesso. Sarebbe stato meglio che Ilse avesse tenuto il bastoncino, così avrebbe potuto davvero dimostrarlo”.
Grazie a quell’errore Elizabeth, la donna che visse due volte, cui solo cinque anni prima avevano detto che non sarebbe nemmeno tornata a camminare, torna sul gradino più alto del podio. È il più grande successo, la più grande rivincita della sua storia. Un successo che, oggi, nessuno ricorda quasi più. Il suo nome non è familiare a Shelly-Ann Frazer, a Veronica Campbell-Brown o a Tori Bowie. Ma devono i loro titoli anche a chi, come Betty Robinson, ha sconfitto decenni di pregiudizio contro le atlete e sognato una nuova strada.