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C’è un’oasi di pugilato a Roma sud, nella zona della Montagnola, incastonata tra un’ansa del Tevere e la tenuta di Tor Marancia, dove si costruiscono le basi per i titoli mondiali (Giovanni De Carolis nel 2016), dove si fanno le ossa i pugili destinati a vivere il sogno olimpico (Guido Vianello, ora pro dei pesi massimi) e dove si preparano le scalate dei talenti del ring romano. Pietro Rossetti è tra questi. Cresciuto sotto la guida esperta di Italo Mattioli e Luigi Ascani (fondatori del Team Boxe Roma XI), il 24enne è reduce dalla vittoria della cintura dell’Unione Europea dei pesi welter in Francia contro Mohamed Kani. Un successo fuori casa, in perfetto stile De Carolis che in Germania contro un tedesco (Feigenbutz) vinse il titolo del mondo dei supermedi. Sette anni dopo l’ex campione iridato condividerà la stessa riunione pugilistica con Rossetti un “amico”, ancor prima che un compagno di palestra. A Roma, al PalaFijlkam di Ostia, sabato 1° luglio (diretta Dazn), l’eterno 38enne sfiderà Douglas Ataide nella marcia di avvicinamento alla sfida europea contro Kevin Lele Sadjo. Nel programma, anche l’altro romano, già campione italiano dei massimi leggeri, Mattia Faraoni, reduce dai successi nella kickboxing. Invece, Pietro Rossetti, ‘The Butcher’ (il macellaio, perché in passato ha lavorato dietro il bancone) difenderà volontariamente la cintura di campione UE dei welter sfidando il francese imbattuto Yanis Mehah (12-0).
Pietro, come è andata la preparazione?
Tutto per il verso giusto. Mi sono allenato alla grande per nove settimane. Ho fatto sparring a Roma con pugili di buon livello e per il peso non c’è nessun problema visto che il welter è il mio peso naturale. Adesso mi aspetta solo la fase di scarico.
Mehah che avversario è?
Un buon pugile, è veloce, scattante, con un bel sinistro e un vantaggio in altezza. Per caratteristiche fisiche non è diverso da Kani, che ho battuto a Montpellier. Ha un anno in più di me, non mi sottovaluta, sa che deve affrontare un match tosto in trasferta. Ho qualche incontro in più di lui da professionista, lui 12 e io 18. Ma è stato un bel pugile da dilettante, ha vinto quattro volte il titolo francese, che poi ha conquistato anche da pro.
Come sfidante è meglio uno stratega che punta a rimanere alla lunga distanza o uno d’assalto che cerca la battaglia esponendosi anche ai colpi?
Preferisco affrontare un pugile più alto, che vuole sfuggirmi e mettermi in difficoltà in questo modo. Mi piace essere il picchiatore contro l’avversario che vuole stare alla lunga distanza. È sempre una bella prova.
Quanto è importante prepararsi in una realtà consolidata come quella della palestra della Montagnola?
Fondamentale. Prima di tutto, qui ci sono pugili per fare sparring a qualunque peso e livello. Poi si respira un’aria che ti permette di migliorare sempre. E con Italo Mattioli e Luigi Ascani c’è un rapporto viscerale, che sul ring ti regala una voglia di vincere determinante per il successo. Ma il maestro Italo sa anche rimproverare al momento giusto.
E poi c’è Giovanni De Carolis.
Un punto di riferimento e un amico. Ora è anche il mio manager con la sua promotion e si prende ancora più cura di me e del mio futuro. Giovanni nel pugilato italiano sta cambiando e rivoluzionando le cose, perché è uno di larghe vedute che conosce l’estero e il pugilato più ‘vero’. Sa spaziare sia a livello internazionale che a livello casalingo.
Proprio come lui hai vinto un titolo fuori casa.
In Francia ho avuto il suo supporto morale, credeva molto in me. Mi ha messo a mio agio, assicurandomi il sostegno per qualsiasi eventuale problema, anche sul lato dell’organizzazione. Le questioni che riguardano il dietro le quinte del pugilato mi agitano, dalla valigia alla borsa, sono cose che spesso mi fanno perdere in un bicchier d’acqua. Basti pensare che a Montpellier ci hanno sistemato in un motel sgangherato, anche per impedire che ci avvicinassimo al match in modo positivo. All’estero a volte provano a metterti in difficoltà così. Vincere in Italia è importante, ma quel che conta è farlo fuori da casa. Questo ho fatto e questo dovrò fare in futuro. E il sostegno è fondamentale.
Hai una sconfitta a fronte di diciassette vittorie nel record. Anche quella ti ha aiutato?
Mi ha fatto crescere dal punto di vista mentale, mi ha ricordato di restare con i piedi per terra e mi ha confermato quel che è la cosa più importante: stare sempre dentro al match mentalmente. Sul lato fisico possono esserci inconvenienti, ma è fondamentale esserci con la testa, è così che si porta a casa un incontro.
Un calciatore risponderebbe Messi. Un giovane pugile romano invece a chi si ispirava da bambino?
Ho visto qualsiasi video di Mike Tyson presente su Youtube. Adoro Roberto Duran e Julio Cesar Chavez. In generale, ho seguito e studiato i grandi pugili della storia, quelli che sono diventati leggende.
Manca un Tyson alla boxe di oggi? Un fuoriclasse mediatico capace di coinvolgere anche i non appassionati.
Il Tyson del momento è Gervonta Davis, secondo me è il fenomeno della boxe attuale. È forte mentalmente, è forte fisicamente. Vediamo quanto durerà.
Sempre più pugili o fighter stanno sollevando il tema delle tutele per gli atleti. L’ultimo è stato Jermell Charlo. Senti che l’aria sta cambiando?
Sì. Qualcosa si muove, anche in Italia. Il pugilato professionistico è uno sport in cui si è molto soli, spesso il pugile viene lasciato allo sbando sotto molti punti di vista e se qualcuno non ce la fa, non frega niente a nessuno. L’aria però sta cambiando.
A fine luglio la supersfida di riunificazione dei welter tra Errol Spence Jr e Terence Crawford. Che effetto ti fa vedere i due atleti più forti della tua divisione uno contro l’altro?
Questo match fa pensare che i pugili vogliano tornare a fare il vero pugilato, quello che porta i più forti in circolazione a sfidarsi. Non è un incontro fine a sé stesso e vedere i principali welter del mondo sul ring non è scontato. Forse sono vecchio stile, ma la boxe per tornare a vivere deve guardare alle sue origini, al passato, all’idea di Jake LaMotta contro Sugar Ray Robinson, che hanno combattuto due volte in poche settimane. E Spence-Crawford è un grande match, non sarà l’unico tra di loro.
Una settimana dopo invece Jake Paul combatterà contro Nate Diaz. Un personaggio mediatico dello spettacolo che sale sul ring può aiutare il movimento?
Al massimo aiuta il movimento pugilistico in Italia, più che quello degli Stati Uniti. Il motivo è intuitivo: il ragazzetto italiano può avvicinarsi a questo sport vedendo il Paul di turno su Instagram. E così facendo, conosce anche gli altri nomi del pugilato. Lui da Youtube, partendo da un altro mestiere, è riuscito a diventare una macchina da soldi con la boxe, gli faccio i complimenti. Certo, però il pugilato rispetto ai social è altro: è riscatto, voglia di vincere, tutto molto più difficile rispetto a quel che fanno sembrare sui video dei training camp su Instagram…
Non sembri un amante dei social.
Non è necessario perderci troppo tempo. Se fai il tuo mestiere a dovere, conquisti la folla a prescindere. Devi vincere e convincere sul ring, poi le cose succedono e automaticamente la gente ti viene dietro. Nel calcio Leo Messi o chi per lui non aveva bisogno dei social per raggiungere la popolarità. Alla base c’è sempre il valore sportivo.
E ti piacerebbe conquistare la folla americana combattendo in un sottoclou prestigioso a prescindere dalla presenza di un titolo in palio?
Nella classifica europea sono quinto, adesso punto ad entrare anche nelle graduatorie delle sigle mondiali. Però non lo nego, mi piacerebbe fare un match da 10 round senza titolo in America contro qualche pugile forte col compito di ribaltare la situazione. Anche questo è quel che devo fare, ma chiaramente l’obiettivo è il titolo europeo che è stato di David Avanesyan. In ogni caso, ora devo solo pensare al match di sabato contro Mehah.
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