Chi era Mohammad Alì? Perché la sua figura è nota anche a generazioni che non lo hanno mai visto combattere? Abbiamo intervistato in esclusiva per Sportface.it Franco Ligas, uno dei più grandi ed esperti commentatori di boxe.
Si è spenta una leggenda dello sport. Il suo ricordo?
“Era prima di tutto un grande uomo. Unico a 360°. Io divido la sua vita in quattro fasi: il giovane Cassius Clay, preferisco chiamarlo così, quello che a 18 anni vinse l’oro olimpico (poi buttato nel fiume, ndr) a Roma nel 1960 e conquistò tutti con il suo sorriso; il pugile della rivincita del titolo mondiale 1965 con Liston; il pugile-uomo costretto a interrompe la carriera per il grande rifiuto al servizio militare e dunque alla guerra in Vietnam e infine il Cassius uomo, quello carismatico che ha combattuto contro il Parkinson”.
I messaggi di cordoglio sono un coro unanime di esaltazione. Perché?
“Perché è un mito, non lo è diventato ora che è morto, lo era già in vita. Un boxeur elegante, rapido, dalla danza dinamica, ma mai arrogante. Sfidava gli avversari con ironia, con voglia di divertirsi senza però essere irriverente. Faceva le sue battaglie dentro le 16 corde e fuori. Tutti ricordano che gli fu tolto il titolo mondiale e fu squalificato per non essere voluto andare in guerra. Attenzione: non lo fece per vigliaccheria, ma perché non credeva nella guerra come mezzo per risolvere le controversie. La sua ribellione era sincera e ha pagato un prezzo altissimo alla causa, non solo in termini economici”.
Il KO a Foreman cambiò la storia, ma la rivincita con Liston nel 1965 non fu trasparente…
“Non è chiaro cosa sia successo nel secondo incontro con Liston quando vinse da sfavorito, forse lo aiutarono, forse no. L’avversario andò al tappeto dopo un pugno che non sembrava così forte, tanto che lo stesso Clay lo invitò a rialzarsi. In verità la moviola rivelò che il cosiddetto ‘pungo fantasma’ colpì la tempia di Liston che infatti vacillava stordito sul ring. Ma la cosa importante è che invitandolo a ricominciare, Clay testimoniò la sua correttezza e limpidezza”.
Si convertì all’Islam sfidando l’America. Sono epiche le sue battaglie contro il razzismo e i diritti civili
“Per me meritava e meriterebbe anche postumo il Nobel per la Pace. È riduttivo parlare di lui per l’ impegno sportivo, secondo me non è stato nemmeno il pugile più forte. La sua grandezza sta nel suo attivismo sociale. Era nato nel 1942, si sentiva un nero d’Africa e lottò per i loro diritti. Da campione del mondo andò in Senagal, nei posti più sperduti e dimenticati, in quelli più poveri e bisognosi, per catturare l’attenzione generale. Era molto carismatico, le sue parole facevano notizia, venivano ascoltate. Avrebbe potuto restare comodamente a casa, parlare da qualche conferenza e invece girava il mondo per cambiare il mondo”.
Tra le sue tante frasi famose, quella “Non ho niente contro i vietcong non mi hanno mai detto nigger”. E fu obiettore di coscienza
“Non capiva il motivo di quella guerra. E non era il solo. Ma lottava contro qualsiasi tipo di ingiustizia, di sopruso. Negli anni ‘70 la battaglia era quella per il riconoscimento delle minoranze e l’ha combattuta a costo di rimetterci. Che fosse la causa dei neri era una coincidenza storica, sono convinto che oggi ad esempio si impegnerebbe nell’accoglienza dei migranti. Senza dimenticare che ha migliorato anche il potere di contrattazione dei pugili”.
Un animo puro? E pensare che di sé disse: “Sono un uomo cattivo”
“Era molto positivo e aveva una grande morale, guardava sempre al futuro ma senza dimenticare i deboli e gli oppressi. Stava in mezzo a loro anche per portare speranza. L’uomo che era e il pugile che è stato fanno di Cassius Clay un campione unico. Non è stato il pugile più forte di sempre, ma il più grande in senso assoluto. I ragazzi di oggi, ma anche i quarantenni, non lo hanno mai visto combattere eppure sanno chi era!”.
Nel privato che tipo di uomo era?
“Era tenero. Ricordo un episodio: la figlia Laila, ottimo peso supermedi, stava combattendo e lui era in prima fila piegato dalla malattia, tenne gli occhi socchiusi per tutto il tempo e il sorriso era forzato. Poi li aprì e vidi fierezza in quello sguardo. Non gli importava se vinceva o perdeva, era orgoglioso del confronto a viso aperto con il rivale. Ha avuto nove figli da quattro matrimoni, ma pur amandoli molto non trascorreva il tempo a giocare con loro. Sentiva di dover allargare il suo raggio d’azione, di avere una missione più alta”.
Il rapporto con il lusso?
“Lo sa che donava buona parte delle sue Borse al gruppo religioso islamico a cui apparteneva? Credo che lo abbiano sfruttato tanto in un modo o nell’altro. È anche vero che era amatissimo, aveva un allure enorme, lo invitavano nei salotti buoni e lui dal dentro con diplomazia portava avanti le sue battaglie, ma non ha mai cercato di essere un nero che piaceva ai bianchi”.
Come affrontò una malattia così invalidante?
“Quando gli diagnosticarono il Parkinson non lo rese ufficiale, si scoprì successivamente. I sintomi caratteristici lo tradirono durante i contatti con il pubblico. In un primo momento fece finta di niente ignorando l’avversario più scomodo che abbia mai avuto. La malattia lo aveva messo all’angolo, ma lui ne schivava i colpi e combatteva quando necessario. A ferirlo di più è stata la diceria che si fosse ammalato a causa dei colpi ricevuti in testa. Non era vero e lui ha sempre smentito questa correlazione. Il Parkinson gli ha ammutolito la dialettica, ma non lo spirito. Ha sfidato la malattia come ha sfidato il razzismo”.
Oggi chi può raccogliere il suo testimone?
“Non vedo nessuno che possa raccogliere la sua eredità, né tra gli sportivi, né tra i politici. Si immagina cosa avrebbe potuto realizzare con la comunicazione globale di oggi? Quale impatto avrebbero avuto i suoi messaggi con i social?”.
Nemmeno Manny Pacquaio?
“È quello che si avvicina di più, ha costruito due ospedali completi di tutto nelle Filippine. Ma come Cassius nessuno mai. Nessuno”.