Per 26 atleti italiani oggi è il giorno del giudizio, sportivo s’intende. La Procura del Comitato Olimpico Nazionale Italiano ha chiesto due anni di squalifica. La vicenda è scaturita dall’indagine penale riguardante Alex Schwarzer, ma non ci stanno a passare per dopati. Il reato contestato a personaggi come Andrew Howe, Anna Incerti e Andrea lalli è quello di non aver compilato, o di averlo fatto nella maniera sbagliata, il cosidetto whereabouts, il formulario delle reperibilità per i test antidoping. Tra di essi anche Silvia Salis, martellista da 71,93 metri che, ai microfoni del Corriere della Sera, si difende: “Ho la consapevolezza di essere innocente, quella dei whereabouts è una vicenda grottesca dal principio. Con la parola doping siamo stati catapultati in un mondo a cui siamo tutti estranei. Uno choc”.
Non parliamo di positività, ma di controlli elusi.
“Non c’è stata nessuna elusione. C’è stata una grande difficoltà nel gestire il sistema delle reperibilità, prima cartaceo o poi online, in totale buona fede. Ci sono stati dei fax fuori uso, password errate, aggiornamenti sugli spostamenti mai giunti a destinazione. Altro che macchinazione per eludere i test antidoping”.
Perché questa storia ha preso una piega così brutta?
“Vorrei capirlo anche io. Il primo interrogatorio in Procura, senza avvocato, era stata una chiacchierata informale. Mai avrei pensato si arrivasse a una richiesta di due anni di stop. Per un’atleta è difficile comprendere. Ma ora voglio il processo, ne voglio uscire pulita”.
Chiederà danni per danni d’immagine, eventualmente?
“Sono molto arrabbiata, sono stata sbattuta in prima pagina accanto alla parola doping. E’ chiaro che tra me e Meucci ci sono livello di danno diversi: io finchè non riterrò di avere avuto una risposta esaustiva andrò avanti”.
Cosa la fa soffrire di più?
“Avvicinarmi alla mia terza Olimpiade in questa situazione. Allenarsi non è facile. C’è l’aspetto morale: non aver fatto nulla di male ed essere sbattuti in prima pagina. E quello pratico: stare dietro a tutto dal Sudafrica, dove ero in ritiro sotto le direttive di Paolo dal Soglio. Un danno a 360°”.
Ma se il sistema dei whereabouts era così scivoloso e fallace, perché non denunciarlo prima?
“Ricevevo mail che dicevano: se sei a posto ignora questo messaggio. Ero in regola, lo ignoravo”.
Perché nessun dirigente federale è finito nei guai con voi?
“Io credo che la Fidal in quel periodo si sia accollata di fare da tramite tra noi e il Coni. Non so nemmeno se le spettasse. Non posso entrare in questa questione”.
Qualche suo collega ha detto: Schwarzer, positivo all’Epo, torna per andare ai Giochi di Rio 2016 e noi, che nulla abbiamo fatto, rischiamo di non esserci per squalifica.
“Se dipendesse da me chi si dopa andrebbe radiato. Possiamo scandalizzarci perché c’è un regolamento che permette a chi è stato trovato positivo di tornare a gareggiare, ma così è. Da martellista mi batto spesso contro avversarie che rientrano da squalifiche per doping. Non mi scandalizzo, ma in Italia si tende a fare di chi ha sbagliato una vittima del sistema. Schwarzer non è un eroe, non è un reduce, non è niente. A Pechino ha vinto, a Londra ha devastato il sistema atletica. Ma guai a chi accomuna il suo caso ai whereabouts. Non lo accetto, è una mossa scorretta”.