Se Jannik Sinner non è ancora diventato il più grande sportivo alto-atesino di tutti i tempi, perlomeno per quanto riguarda le discipline estive, è colpa di un campione che da mezzo secolo ci guarda tutti da lassù. Anche letteralmente: perché dagli anni Sessanta Klaus Dibiasi è una specie di sineddoche universale. La parte per il tutto: Klaus Dibiasi è “la” piattaforma, il blocco di cemento collocato a 10 metri dall’acqua dall’alto del quale è stato il migliore di tutti per tre Olimpiadi consecutive, unico tuffatore della storia a riuscirci, unico atleta maschio della storia olimpica italiana ad aver vinto tre ori individuali consecutivi (lo ha eguagliato solo Valentina Vezzali).
Leggiamo gli articoli e le interviste al giovane Dibiasi sul finire degli anni Sessanta e ci sembra di sentir parlare (di) Sinner. A cominciare dagli ovvi motivi geografici: già nel 1968 c’era chi si poneva la questione della lingua e tentava di verificare il grado di patriottismo di un ragazzo bolzanino o forse tirolese, le cui origini si mischiavano anche a causa delle complesse evoluzioni politiche del Novecento europeo. Italiano o austriaco? Il dubbio coinvolgeva suo padre Carlo, o forse Karl, originario della Val di Non e campione italiano dalla piattaforma dal 1933 al 1936, con partecipazione senza infamia e senza lode ai Giochi di Berlino (decimo). Carlo Dibiasi era passato più volte dalla nazionalità austriaca a quella italiana, sfruttando i vari trattati politici e commerciali di quei tempi movimentati, e nel 1953 aveva definitivamente scelto di tornare a Bolzano, in seguito all’accordo De Gasperi-Gruber che garantiva completa uguaglianza di diritti a tutti gli abitanti di lingua tedesca originari della provincia di Bolzano. E così aveva allevato suo figlio Klaus, nella speranza che raggiungesse i risultati che lui aveva solo sfiorato: ai Campionati assoluti di Roma 1962 avevano addirittura gareggiato insieme, il papà a 53 anni (terzo!) e il figlio a 15, e già s’era capito che Klaus era pronto per ballare da solo, tanto da rivelarsi l’anno dopo ai Giochi del Mediterraneo di Napoli, primo nella piattaforma. “Questo è qualcosa di diverso”, avevano strabuzzato gli occhi gli osservatori italiani, abituati al tran-tran semi-amatoriale del nostro movimento. “Ha la classe degli americani e fa i punteggi degli americani”.
Ma come funzionavano i punteggi dei tuffi negli anni Sessanta? Diversamente da oggi, quando la somma dei tre voti “centrali” della giuria viene moltiplicata per il coefficiente. Fino ai Giochi di Città del Messico 1968 il calcolo era il seguente: venivano scartati il voto più alto e il voto più basso tra i sette espressi dalla giuria, i cinque voti centrali venivano sommati, moltiplicati al coefficiente e infine divisi per cinque. Perciò non stupitevi se, sui resoconti dell’epoca, troverete punteggi molto più bassi di quelli attuali… semmai, erano più bassi i coefficienti: il 3.0 era ancora una barriera insuperabile, e lo sarebbe rimasta per parecchi anni.
Dopo aver stupito il mondo cogliendo un clamoroso argento a 17 anni dalla piattaforma ai Giochi di Tokyo 1964, un soffio dietro lo statunitense Webster, per Dibiasi il quadriennio che conduce al Messico è quello del silenzio, del basso profilo, del lavoro da caserma per portare finalmente l’Italia al centro della scena olimpica. L’unico appuntamento mediano, l’Europeo di Utrecht 1966, viene santificato con regolarità da impiegato postale: oro. Nella Piscina Olimpica “Francisco Marquez” Dibiasi sa che dovrà vedersela con la sempre agguerritissima scuola americana nonché con l’idolo locale Alvaro Gaxiola, un tuffatore di Guadalajara di dieci anni più anziano ma anche inferiore tecnicamente, che però potrebbe limare preziosi decimi di punto grazie al fattore campo. Inoltre, si annuncia tutta una serie di difficoltà ambientali: il fuso orario, l’altitudine, il fatto di dover gareggiare in un impianto chiuso – dettaglio mai apprezzato da Klaus. Proprio come farà Sinner mezzo secolo più avanti, il giovane Dibiasi affronta tutto questo con una calma e una concentrazione innate, forte del lavoro d’équipe sviluppato con suo padre, con l’amico e collega Giorgio Cagnotto (che eccelle dal trampolino) e con il tecnico federale “Oreste” Horst Goerlitz, che ha fatto conoscere all’Italia gli innovativi metodi di lavoro tedeschi. Le infrastrutture italiane sono quelle che sono, specialmente a proposito di tuffi, così non è inusuale che Klaus si arrangi in palestra col tappeto elastico. Sarà il primo a farsi fotografare in sequenza durante un tuffo per analizzare postura e altre componenti tecniche, fino addirittura ad approfittare dei primi rudimentali strumenti di videoregistrazione in super-8. E qui sviluppa quella tecnica sopraffina che diverrà ispirazionale per il mondo intero, a cominciare dalla torsione del polso, fondamentale per ridurre al minimo gli schizzi e perfezionare quegli ingressi in acqua che stupiranno il mondo intero.
Dibiasi fa le prove per la piattaforma conquistando un sorprendente argento dal trampolino, in una due-giorni in cui stecca a sorpresa Cagnotto (“solo” quinto) e l’unico a star davanti a Klaus è lo statunitense Bernard Wrightson. Chi frequenta appena marginalmente il clan Dibiasi sa che il ragazzo è in forma smagliante: soprattutto, non sente alcuna tensione né agitazione, qualità fondamentali in una disciplina così psicologica. Il programma della piattaforma si sviluppa su dieci tuffi: sette preliminari che servono a scremare il campo dei partecipanti a dodici finalisti, e tre appunto di finale, dove si accede portandosi dietro il punteggio della prima fase. Dibiasi ha l’accortezza di sistemare per primi gli obbligatori dal coefficiente più basso: non lo spaventa l’idea di una gara in rimonta, perché sa che al contrario i suoi avversari dovranno sparare subito le cartucce migliori. È quello che fa appunto il messicano Gaxiola, in testa a metà gara ma con un distacco piuttosto esiguo perché Dibiasi, pur penalizzato dai coefficienti, gli è subito alle calcagna. Mette la freccia già al sesto tuffo, un “uno e mezzo” avanti con avvitamento, e consolida la vetta con il tuffo più problematico dell’intero programma, l’unico con coefficiente 2.9. È l’uno e mezzo avanti con triplo avvitamento, che fa tremare i giornalisti italiani perché papà Carlo ammette candidamente che in allenamento gliel’ha visto uscire una volta sì e una volta no. Ma in gara Dibiasi è un angelo coi nervi di ghiaccio: dalla giuria fioccano gli 8 e i 9, e Klaus arriva in carrozza alla finale delle 5 del pomeriggio, nella tarda serata italiana. Laddove, semplicemente, domina: 19.92 all’ottavo tuffo, un doppio e mezzo ritornato da 2.4 di coefficiente; 20.02 al nono e penultimo tuffo, un triplo e mezzo ritornato da 2.6 che lo porta a superare i 147 punti, il punteggio con cui era stato argento a Tokyo, quando manca ancora un tuffo. Gli avversari alle sue spalle sono scomparsi per dispersione, com’è successo allo statunitense Russell che fallisce clamorosamente il doppio e mezzo rovesciato, punito con una sfilza di 3 e 4, e si vede soffiare il podio dal connazionale Win Young. Il nostro non può più perdere, nonostante il baccano dei messicani e certi giurati un po’ morbidi verso Gaxiola, che dal canto suo non avrà problemi a congratularsi con Dibiasi e ad ammetterne la superiorità e la sportività. L’ultimo tuffo, un doppio e mezzo rovesciato da 2.7 che in Messico chissà perché chiamano “holandes” (olandese), è il peggiore della serie finale, forse anche disturbato dall’urlo dagli spalti di un solitario imbecille: alla fine Dibiasi riesce a salvarlo con la classe del campione, quel “senso del tuffo” che in volo gli consentiva aggiustamenti invisibili all’occhio inesperto ma decisivi per la resa scenica. Trionfa con quasi dieci punti su Gaxiola, un distacco abissale che potrà essere migliorato solo con l’adozione del nuovo sistema di punteggio (che comunque non impedirà a Dibiasi di continuare a dominare, come farà a Monaco 1972).
I giornali, del tutto digiuni di tuffi, celebrano Dibiasi come un angelo proveniente da un’altra dimensione. “Si è presentato di spalle, è stato fermo a lungo, concentrandosi, le braccia aperte in alto, in posizione ieratica”, scrive Aronne Anghileri sulla Gazzetta dello Sport. “Ha atteso e preteso il silenzio nell’enorme piscina a volte irrispettosa, si è staccato morbidamente, ha volteggiato nell’aria perfettamente padrone di ogni movimento, si è disteso, è entrato in acqua con un sussurro”. Le righe che gli vengono dedicate contengono sempre elementi soprannaturali, così com’è pare del resto ultraterrena questa disciplina che necessita un controllo del corpo miracoloso: “A noi è sembrato che la rarefazione dell’aria per Klaus non esista affatto, anzi, per lui l’aria doveva essere più densa, quasi liquida, da tagliare lentamente, tanto che poteva scendere dalla piattaforma usandola come punto d’appoggio per i suoi incredibili avvitamenti, facendo perno per i salti mortali tripli o doppi e mezzi”. L’ammirazione per Dibiasi supererà velocemente quelle Alpi che ormai non rappresentavano più un elemento di polemica politica: come accadrà appunto anche con Sinner, l’unanime stima e rispetto per il campione sarà più forte di tutto, delle risposte a monosillabi, di certe battute in tedesco con papà Carlo che prima non sfuggivano ai giornalisti più maliziosi. Sarà il volto felice e rassicurante dell’Alto Adige insieme a Gustav Thoeni, che negli stessi anni detterà legge nello sci alpino. Dominerà su tutto l’enormità del valore tecnico e agonistico di Klaus Dibiasi da Solbad Hall, Tirolo, eppure italiano a 24 carati. Lo lasciamo riassumere all’amico e rivale di tutta una vita, Giorgio Cagnotto, che ne capisce certamente più di noi. “Sul piano tecnico, Dibiasi compone con Louganis e Boggs il più forte trio di tuffatori precedenti all’avvento dei cinesi. Prima di lui i tuffi erano un’altra cosa. Li ha cambiati come i Beatles hanno cambiato la musica. Le sue entrate in acqua, silenziose e fruscianti, senza sollevare spruzzi, hanno fatto la rivoluzione. Non aveva la potenza e la spinta di gambe di Louganis, ma un insuperabile senso del tuffo mentre era in volo, una grande rapidità nel finale che gli consentiva di salvare in extremis un esercizio. Scioltissimo nelle spalle, si infilava in acqua affusolandosi come un bastone. Faceva “ciuff”, e dominava nel mondo”.