La solitudine dei numeri 1. Le decine di previsioni di medagliere che abbiamo letto anche un po’ istericamente prima che iniziasse la rumba, tutte più o meno incoraggianti, qualcuna di ottimismo persino oltraggioso e pericolosamente confinante con l’auto-gufata, partivano tutti dalla stessa considerazione: i migliori, logica alla mano, arriveranno in fondo. E dunque Tommaso Marini, Alice Volpi, Arianna Errigo, Assunta Scutto, Odette Giuffrida, Aziz Abbes Mouhiddine, il doppio Bolelli-Vavassori, tutti numeri 1 dei rispettivi ranking o teste di serie numero 1 o campioni mondiali in carica.
Ma quando prendiamo la penna in mano e ci mettiamo di buona lena a immaginare, anzi peggio a “prevedere”, ignoriamo continuamente l’enorme differenza che corre tra le Olimpiadi e lo sport normale. I Giochi sono qualcosa per cui nessuno è preparato: sia per l’incommensurabile aumento di pressione che porta valenti judoki/canottieri/schermidori non troppo conosciuti a doversi misurare con uno sbarramento mediatico che ti eleva su un ipotetico gradino più alto del podio solo per il gusto di buttarti voluttuosamente giù con rinnovata cattiveria; sia perché, nel momento in cui si entra in gara e si mette piede nell’Olimpiade, ci si trova di fronte a qualcosa di imprevedibile. L’immensità anche acustica del Grand Palais dove si stanno svolgendo le gare di scherma non ha eguali nella storia di questa disciplina, così come una vasca poco profonda o troppo lenta che appiattisce le distanze tra i nuotatori – per non parlare di quell’entità a sé stante che si chiama Villaggio Olimpico, su cui l’atleta al debutto è chiamato a prendere subito una decisione: starci, dormirci, rimanerci, farsi prendere dall’euforia di un’Olimpiade che “devi” onorare partendo da una cerimonia d’apertura sotto il diluvio, oppure telare in hotel, andare a dormire alle 23, imporsi una concentrazione monacale stile Pippo Ganna che infatti dopo l’argento a cronometro se n’è subito tornato in Italia a preparare le gare su pista.
La mia prima Olimpiade è appena all’alba del quarto giorno e ne sembrano passati quarantaquattro, ma non è mia intenzione sottintendere alcunché di negativo. Voglio dire che le Olimpiadi sono un circo felliniano, come il finale di “Otto e mezzo” in cui tutti si prendono per mano e girano insieme, felici e indissolubili, l’atletica con il canottaggio, il judo con il tiro a segno, e mischiano insieme amarezze e felicità . L’altro ieri sera, in un clima che a Casa Italia stava per diventare plumbeo dopo la grande delusione del fioretto femminile, ci è piombato tra capo e collo l’oro non preventivabile e non negoziabile di Nicolò Martinenghi, che nelle quote dei bookmakers era dato vincente dei 100 rana a 71. Il giorno dopo s’è scoperto che il cosiddetto “grande sconfitto”, il britannico Adam Peaty che ha mancato la possibilità del terzo oro consecutivo, aveva gareggiato con il Covid, che comunque non gli ha impedito di arrivare secondo a due centesimi dal trionfo. Simbolo piuttosto centrato di cosa vuol dire un’Olimpiade, e di com’è più facile viverla se ci sei già passato, e di come anche se ci sei già passato sei semplicemente indifeso, esposto a qualunque refolo di vento, schiribizzo arbitrale o centimetro di bersaglio che intralcia sadicamente i tuoi piani. C’è da impazzire, lo so. C’è da impazzire a essere Filippo Macchi che – forse – aveva vinto due volte, e invece no. C’è da impazzire a essere Benedetta Pilato che è passata da un pronostico di anonimato a un bronzo a un centesimo, un oro a sei centesimi, e invece niente. Forse è questa la famosa “maturità ”, qualunque cosa significhi questa parola: ne parlavo ieri sera con Andrew Howe, che non aveva risposte. Nessuno ne ha, davanti al mistero impossibile del treno della vita che ti passa davanti, e tu non sei riuscito a salirci per un centesimo di secondo. Anche per questo onore a Thomas Ceccon, che si è preso Parigi 2024 con una lucidità da marziano, finendo per avere ragione su tutta la linea. In tre giorni di Olimpiade stiamo assistendo a piccole parabole umane altissime, bassissime e profonde molto più della piscina della Défense Arena, e conoscendo i soggetti che devono ancora entrare in scena prepariamoci a raccontare altri capitoli della tragicommedia umana che ci fa venire le palpitazioni una volta ogni quattro anni.