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I Giochi Olimpici sono in grado di regalare emozioni uniche, indelebili, che restano vive per sempre sulla pelle e nel cuore. Ci si gioca tutto in uno scatto, in un movimento, in un colpo. È così che nascono storie dal finale rocambolesco, in cui in una frazione di secondo si passa dalla più cocente delle delusioni alla gloria imperitura. E viceversa. Il protagonista della nostra storia è Roberto Di Donna, oro ad Atlanta 1996 nella pistola 10m ad aria compressa.
Al Wolf Creek Shooting Complex il cinese Wang ha un vantaggio sull’azzurro che appare incolmabile. Per alcuni minuti salta il sistema elettrico dell’impianto, minuti che sembrano ore. ‘Dido’ difende il suo argento dall’assalto del bulgaro Kiriakov, poi accade l’impossibile. Al cinese basta un 6,6. Fa 6,5, nell’incredulità generale. 682,2 a 684,1: un decimo di punto per entrare nella storia. No, non è più argento. È oro! Oro! Roberto Di Donna è nella storia. Classe 1968, romano di nascita ma veronese d’adozione, oggi Roberto è tecnico della nazionale che volerà a Tokyo, ama questo sport più del primo giorno e si rilassa con il golf. Lo abbiamo intervistato per comprendere fino in fondo il significato del sogno olimpico.
Il suo è uno sport di nicchia, ricco di storia e di fascino. Come lo ha scoperto e perché?
“Iniziamo con il dire che non ho mai avuto una passione per le armi. Mio fratello maggiore si era iscritto al tiro a segno di Verona per poter partecipare ai ‘Giochi della Gioventù’ e per seguirlo, all’età di dodici anni, ho messo per la prima volta piede al poligono. È stato un amore a prima vista.
È corretto dire che lo si può considerare uno strumento di crescita?
“Assolutamente si. Voler colpire un bersaglio a 10 metri mi divertiva e mi permetteva di fare un esame introspettivo quotidiano, sebbene fossi molto giovane. Continuare a cercare di superarsi per far passare ansie e paure fa bene a tutti. Il bersaglio è statico, è vero, ma il cuore batte forte e si provano emozioni incredibili. Si è soli con il proprio attrezzo da tiro. Crescere è inevitabile”.
Quando è entrato a far parte del gruppo delle Fiamme Gialle e che importanza ha avuto nella sua carriera?
“A quei tempi c’era l’obbligo di leva. All’età di diciotto anni ebbi diverse richieste dai gruppi sportivi militari dopo aver vinto i Campionati Europei Juniores nel 1986. L’anno dopo mi arruolai con altri quattro amici e sono ancora qui. Sono sempre più convinto che si debba dire grazie ai gruppi sportivi, senza di loro sarebbe complesso trovare una diversa formula di professionismo. Anche uno sport poco conosciuto come il mio richiede un impegno di circa 220-230 giorni l’anno, il che fa capire le difficoltà che avrebbe un’azienda privata nel sobbarcarsi allenamenti e gare, consentendo all’atleta di esprimersi nel migliore dei modi. Il tiro a segno è uno sport longevo ma in altri casi le carriere finiscono prima ed il gruppo dà l’opportunità di avere un posto di lavoro al termine dell’attività sportiva”.
Facciamo un passo indietro. Roberto Di Donna arriva ad Atlanta dopo tre anni molto positivi in cui ha sempre raggiunto la medaglia nelle finali di Coppa del Mondo. Le immagini di quanto accaduto negli Stati Uniti sono ancora negli occhi e nel cuore di appassionati e non. Cosa ha vissuto in quei momenti?
“Avevo 20 anni quando a Seul partecipai ai miei primi Giochi Olimpici. Ero li per fare esperienza e a distanza di molto tempo posso affermare che è stata l’unica Olimpiade che mi sono veramente goduto. Ero incuriosito da quello che era il mondo olimpico e dall’atmosfera che sapevo avrei respirato al Villaggio. Essere lì con i fratelli Abbagnale, Vincenzo Maenza, Adriano Panatta e tante altre leggende dello sport è stata un’esperienza incredibile. Sapevo di non poter essere competitivo e mi sono concentrato anche su altro. Da quel momento la mia carriera è stata in continua ascesa. Nel 1991 ho vinto la mia prima gara di Coppa del Mondo, affermandomi come tiratore di livello internazionale. A Barcellona, nel 1992, sono arrivato ottavo ma il mio sogno continuava ad essere il podio. Per quel quarto d’ora di gloria ero pronto a dare tutto. Dal 1992 al 1996 ho vissuto un quadriennio straordinario e mi sono presentato ad Atlanta come atleta da battere insieme al cinese Wang. Volevo isolarmi nella mia camera singola, il ‘contorno’ lo avevo già vissuto. Il 20 luglio sulla Gazzetta dello Sport uscì una prima pagina dal titolo ‘Puntiamo all’Oro’, cui era allegata una mia foto. Mi hanno protetto nascondendomela fino al trionfo. Quel giorno ero teso ma sono riuscito a trovare la giusta concentrazione, imponendomi di tirare colpo su colpo alla ricerca della perfezione assoluta. L’ultimo colpo l’ho sparato dopo un blackout, al limite dei 75 secondi che abbiamo a disposizione. Wang alza e abbassa la pistola per due volte, tremante, poi spara. Ho sentito un boato incredibile, uno di quelli che arriva se tiri benissimo o malissimo. Mi sono girato. Apoteosi. Il tiro a segno era entrato nella casa degli italiani”.
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C’è qualche aneddoto particolare al quale è legato?
“Certamente ed uno di questi mi è rimasto particolarmente impresso. La notte dell’oro ebbi problemi con l’antidoping perché continuavo a bere e la mia urina non riusciva a raggiungere il PH necessario per essere analizzata. Quella sera fecero una festa in mio onore ma non partecipai perché restai tutta la notte in compagnia del responsabile CIO antidoping al fine di poter ripetere l’esame la mattina dopo. Riuscimmo a festeggiare il giorno successivo e c’era anche Luciano Pavarotti. “Di Donna, lei ha fatto una grande cosa per il suo paese – mi disse – e se ne accorgerà una volta rientrato in Italia”. Aveva ragione e ricordo tutto con grandissimo orgoglio. La mia vita era cambiata”.
Avverte qualcosa di diverso nei Giochi Olimpici odierni rispetto a quelli in cui ha gareggiato lei?
“Direi di no. Quelle del 1988 furono i primi Giochi non boicottati (nel 1984 i russi non si presentarono a Los Angeles ndr.), mentre nel 1992 c’era stata la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il livello si era alzato notevolmente e si doveva fare i conti con diversi avversari sempre più temibili. Il professionismo era esasperato. Allora come oggi. Nello sport contano i risultati”.
Oggi ricopre il ruolo di tecnico della nazionale maschile e femminile nella pistola 10m. Come si trova in veste di allenatore?
“È una grande responsabilità. Siamo reduci dagli Europei in Polonia dove abbiamo conquistato il secondo posto. Paolo Monna ha strappato il pass per Tokyo e sarò lì con lui. Dal 2010 al 2016 ho lavorato con il settore giovanile, poi sono passato alla Nazionale maggiore. Ai miei ragazzi dico sempre che la vita da tecnico è mille volte più facile rispetto a quella da atleta. Ho sempre un rispetto e una stima infinita nei loro confronti, so cosa significa. La parte difficile è gestire i loro momenti di stress e trovare il giusto equilibrio, più del lavoro in pedana e della programmazione. Gli stimoli non mancano mai, amo questo lavoro”.
Scendiamo dalla pedana per un attimo. Cosa fa per staccare la spina e rilassarsi?
“Vivo una situazione allo stesso tempo splendida e stressante. Almeno 20 giorni al mese li passo lontano da casa, preso dal vortice della frenesia. Gare e raduni sono moltissimi. La serenità l’ho trovata nel golf, grazie al quale passo anche cinque ore all’aria aperta liberandomi dai pensieri pesanti e riordinando le idee”.
Che consigli darebbe ad una ragazza o ad un ragazzo pronto ad avvicinarsi al tiro a segno?
“L’importanza dello sport è vivere in modo onesto, sereno, pulito ed equilibrato il tempo libero. Giocare e divertirsi, è questo l’approccio migliore. Chi si avvicina allo sport non deve farlo per i risultati, quelli sono una conseguenza. Rispettate sempre voi stessi e gli altri”.
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