Colpi di scena, colpi di classe e anche colpi bassi: la gara a squadre di spada maschile delle Olimpiadi di Sydney 2000 ha regalato all’Italia un oro incredibile ed indimenticabile. Gli azzurri Alfredo Rota, Maurizio Randazzo, Angelo Mazzoni e Paolo Milanoli hanno sconfitto la Corea del Sud in una semifinale drammatica vinta in rimonta, per poi superare anche la Francia in una finale al cardiopalma. A raccontarci le emozioni di quella medaglia è proprio Paolo Milanoli, intervistato da da Giuseppe Pastore e Alessandro Nizegorodcew (quest’ultimo coadiuvato al montaggio da Diego Sorano) nella terza puntata del podcast “Oro”, una produzione Nexting e Sportface che ripercorre le grandi vittorie azzurre a cinque cerchi a pochi mesi dal via delle Olimpiadi di Parigi 2024. Ecco, di seguito, le parole di Roberto Di Donna.
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Nella scherma si parla spesso di moschettieri, come fosse una commedia, ma qual era la divisione dei ruoli in quella squadra Rota, Randazzo, Mazzoni e Milanoli?
Sui luoghi comuni nello sport dovremmo fare una puntata a parte perché ci sarebbero delle puntualizzazioni da fare, secondo me, oltre che molto interessanti anche necessarie su luoghi comuni che andrebbero un po’ sfatati. Per quanto riguarda la squadra, innanzitutto mi piace dire che i giochi Olimpici non sono una gara ma sono la fase finale di una gara che già iniziata molto prima, le Olimpiadi iniziano con le qualificazioni ecc. Per cui c’è già stata una gran parte di gara interna, perché c’è la lotta per conquistarsi il posto, e verso l’esterno, perché bisogna qualificarsi alle fasi finali. Per quanto riguarda Sydney c’è stato il fatto eclatante dell’esclusione di Sandro Cuomo a cui ho preso il posto, però mi sembra di poter dire senza troppe polemiche, anche se non penso ci sia rimasto bene. Lui era uno dei capisaldi della squadra ed io ero, seppur non giovanissimo, quello che si infilava in qualche modo. E poi c’era l’inserimento di Alfredo Rota, che aveva già fatto delle gare con la Nazionale però era l’uomo su cui si doveva puntare per i momenti critici e poi così è stato. Eravamo comunque tutti protagonisti: c’era il vecchio, Angelo Mazzoni, che appunto nonostante l’età è riuscito ad entrare in squadra e che rappresentava un po’ anche il nostro database, un database vivente di avversari.
Tu arrivavi alla tua prima Olimpiade a trent’anni, che non è un’età giovane per uno schermidore, anche un po’ per sfortuna perché sei stato il primo degli esclusi sia a Barcellona che ad Atlanta. Come ti approcciavi ad un evento sicuramente emozionante tra quelli che si ricordano per tutta la vita per un atleta alla prima Olimpiade: quali erano le tue emozioni prima della partenza una volta arrivato a Sydney?
A parte che l’hai detto, cioè una sfiga pazzesca perché quando ero sesto andavano in cinque, quando ero quinto andavano in quattro e quando ero quarto sono andati in tre. Anzi, ad Atlanta (1996, ndr) ho fatto la riserva e avrei anche dovuto entrare perché Sandro Cuomo si era fatto male e invece, giustamente visto che chi usciva non prendeva la medaglia come successe a Diana Bianchedi, lui anche un po’ infortunato decise di non uscire. Quindi è stata l’Olimpiade del “finalmente tocca a me” perché effettivamente ne avevo mancate un po’ in cui avrei potuto esserci. L’approccio era “ora tocca a me e non possiamo sbagliare, cerchiamo di divertirci”. Ho sempre avuto un approccio del “cerchiamo di divertirci”.
Il divertimento non ti ha mai abbandonato nel corso della tua carriera, però Sydney ha un programma che è piuttosto strano perché c’è subito la gara individuale il sabato e poi non si completa il programma individuale come succede oggi prima di passare alla gara a squadre, ma c’è già due giorni dopo la spada a squadre. La gara individuale non va bene per tutti gli italiani: tu esci agli ottavi contro il vice-campione del mondo dopo aver eliminato Mazzoni ai sedicesimi in una specie di derby che lascia anche qualche strascico polemico, di cui non so se vuoi parlare 24 anni dopo…
Le polemiche in ogni caso non mi appassionano, soprattutto quelle a posteriori. Ho sempre preferito viverle diciamo di faccia, però mi ricordo che a quei tempi si sapevano prima gli accoppiamenti e quindi noi già prima di partire sapevamo che io avrei incontrato Angelo Mazzoni, il quale per me non era sicuramente un avversario comodo. Ho capito subito che avrei dovuto vincere a livello psicologico e ho cominciato a vedere la sua debolezza quando ho notato che lui durante tutto il periodo preolimpico non ha mai voluto allenarsi con me, come se dopo 10 anni quel breve periodo avesse dovuto rivelarmi qualcosa di lui o viceversa a lui far scoprire qualcosa di me quindi ho capito che in qualche modo non era così tranquillo come magari alcuni precedenti tra me e lui avrebbero potuto far pensare. Dopo di che io so benissimo, a proposito di luoghi comuni, che la carta conta niente quindi la stessa persona può batterti sempre, ma conta quando la incontri quel giorno lì. Non siamo sempre forti allo stesso modo tutti i giorni e questa è una cosa che bisogna ben ricordare sia perché l’avversario che abbiamo sempre battuto ci può battere e sia perché l’avversario con cui magari non ci si è trovati bene o che ci ha sempre battuto possiamo batterlo: oggi è un altro giorno.
Tu che tipo di schermidore eri? Dagli articoli dell’epoca emerge il ritratto di un atleta magari non particolarmente tecnico ma estremamente difficile da affrontare anche a livello temperamentale. Non so se ti rivedi in questa definizione che davano di te anche le cronache dell’epoca oppure vuoi darci un tuo profilo 24 anni dopo…
Anche qui rientriamo in quei luoghi comuni “ci sono quelli forti sulla carta”, “ho fatto il provino all’Inter ma poi..” oppure “sì, era più forte di tutti ma gli mancava la testa”: tutte queste definizioni, secondo me, sono un po’ equivoche. Lo sportivo in generale e lo schermitore in particolare è fatto di tecnica e di testa e quindi non si può essere fortissimi se manca una delle due componenti. Devo dire che nel mio caso imparato a conoscermi o a riconoscermi adesso, a distanza di tanti anni, a riconoscere il percorso che ho fatto accompagnando i ragazzi più giovani che sto accompagnando e dico “Cavoli, l’ho fatta anch’io”. Confermo quello che dici: non ero uno iper-tecnico e quindi avevo, soprattutto all’inizio della mia carriera, delle carenze e delle lacune tecniche. Il che mi ha costretto ad inventarmi, cioè a fare con quello che avevo e quindi mi sono sempre ingegnato a perfezionare quello che avevo nel modo più maniacale più utile possibile e quindi sono diventato effettivamente uno schermitore in qualche modo unico perché usavo delle strategie, delle tattiche che nessuno usava e che pochi ancora adesso usano.
Facciamo un passo indietro: perché la spada? Cioè come sei arrivato a scegliere l’arma?
Spada, fioretto e sciabola hanno delle caratteristiche distintive abbastanza precise. Per esempio, se sei molto basso, è difficile che tu faccia spada, benché ci siano delle eccezioni di schermitori bassi tra cui alcune anche mie bestie nere che erano forti. Però diciamo che è un’arma da alti, così come la sciabola è un’arma da più veloci. Ai miei tempi si iniziava a tutti col fioretto, cosa che adesso non si fa più e alcuni ragazzi iniziano subito dalla sciabola o dalla spada, cosa che è anche negativa. Noi invece iniziavamo obbligatoriamente dal fioretto, la spada si iniziava a 14 anni e quindi io ho iniziato dal fioretto e poi le mie caratteristiche mi hanno portato a scegliere la spada. Oggi posso dire, come ho sempre detto ai miei colleghi in polemica con loro, che è la vera arma della scherma, secondo me. Anche storicamente il fioretto era solo un’arma d’allenamento, poi le cose serie si facevano con la spada a piedi e con la sciabola a cavallo.
Torniamo a Sydney perché c’è una gara a squadre che immagino stuzzichi anche l’orgoglio di una squadra uscita un po’ male dall’individuale. L’Italia era campione uscente dopo l’oro olimpico nel ‘96, ma i favoriti erano i francesi campioni del mondo in carica l’anno prima. C’è un sorteggio favorevole del tabellone, che vede l’Italia evitare la metà di tabellone con le squadre più forti. Racconterà Alfredo Rota, che era tuo compagno di stanza, che vi eravate immaginati la sera prima tutta la gara dei sogni, per filo e per segno dal tabellone, alla finale, l’inno, le medaglie, ecc. È così? Hai qualche ricordo della vigilia?
Qualche ricordo ce l’ho, ho anche ancora il piumone sul letto di mia figlia perché era un piumone singolo rubato al villaggio olimpico. Dei ricordi soprattutto dell’atmosfera del villaggio li ho: un’atmosfera ovattata, un’olimpiade ad un’età abbastanza avanzata, quella terra di mezzo dove sei a un’olimpiade e quindi ovviamente i sogni e le speranze si fanno avanti e quindi è vero che cerchi con la razionalità di capire quali sono le tue vere possibilità in quel frangente, cercando di non dare troppo spazio appunto ai sogni e rimanere coi piedi per terra. La consapevolezza di non essere sicuramente gli ultimi arrivati, ma anche la consapevolezza di avere davanti squadre non più forti di noi sulla carta. Quindi è vero quello che dice Alfredo, a parte che per noi lo scherzo e la fantasia sono sempre stati il leitmotiv della nostra carriera: è vero che abbiamo sognato, anche con Zennaro mi ricordo epiloghi direi fantascientifici alla vigilia. Forse anche per esorcizzare o per radunare le forze, per trovare il coraggio di affrontare avversari veramente giganteschi. E quindi l’abbiamo ipotizzato, ma non so quanto razionalmente ci credessimo. Sicuramente siamo sempre stati individui e anche una squadra che non ha mai avuto paura di qualcuno: grande consapevolezza di chi dovevamo affrontare, ma quando siamo in pedana, non ci interessa. Il risultato lo prendiamo in senso etimologico: andiamo a vedere cosa risulta dopo la gara, che cosa è successo, ma noi abbiamo sempre dato il 100%. Qui c’è un altro dei luoghi comuni che io cerco di sfatare, perché si parla sempre di dare il massimo: noi abbiamo sempre preso lo sport come prendere qualcosa. Quindi in allenamento il fatto di mollare un certo punto ci sembrava di non prendere tutto quello che ci era stato messo a disposizione. E così anche nelle gare, non abbiamo mai avuto l’impressione di essere lì a dare qualcosa, ma a prendere quindi più prendi e meglio è.
Che ricordi hai delle due gare decisive, perché la finale con la Francia è la più famosa, ma anche una semifinale con la Corea piuttosto drammatica, vinta anche quella all’ultima stoccata, che ti ha visto protagonista con una grande rimonta nell’ultimo assalto. Che ricordo hai di quella giornata e di quegli assalti?
Con l’Australia, a parte un momento in cui ci hanno un po’ tenuto testa forse anche galvanizzati dal fatto di giocare in casa, eravamo abbastanza tranquilli. Anche perché a differenza di una gara individuale, dove ogni stoccata vale il 6% del match e quindi se ne sbagli già 2-3 sono problemi, in una gara a squadre i valori sono più rispettati. Quindi con l’Australia mi sento di dire che eravamo abbastanza tranquilli. La Corea invece è stato veramente un dramma, che poi torna utile allo storytelling e all’impresa compiuta perché di impresa si tratta, dove anche il destino ha messo lo zampino rendendola veramente qualcosa di epico e di riconosciuto anche dal pubblico, penso che anche all’esterno si sia vissuto questo pathos che abbiamo avuto noi. Con la Corea si può dire che avevamo perso, perché nonostante stessimo tirando bene quasi tutti, ogni volta che quasi tutti tiravano bene, ce n’era uno che tirava malissimo e che ci faceva ripiombare sempre sotto. Questo era un po’ snervante, era un po’ frustrante perché la squadra stava girando bene e c’era quest’unico ingranaggio che non riusciva a trovare la giusta dimensione e quindi non sapevamo neanche cosa fare, anche perché la gara a squadre è a staffetta: un ingranaggio può anche determinare il successo o il fallimento della squadra stessa. E quindi siamo arrivati all’assalto finale a -5, situazione in cui il 90% delle volte si perde, ma qua Alfredo ha veramente dimostrato di essere un campione. Non ha neanche guardato il punteggio, non ha guardato che aveva di fronte la medaglia di bronzo olimpica e quindi gente di tutto rispetto perché i coreani, soprattutto allora, erano davvero forti e anche tecnici, e tra l’altro un avversario non comodo per il tipo di scherma di Alfredo. Alfredo, al di là di ogni aspettativa: ti posso confessare che non ci speravo molto anche proprio considerati i valori in campo, poi ho visto nei suoi occhi uno sguardo vitreo, uno sguardo di chi semplicemente andava lì per fare quello che sapeva fare e poi ha fatto una rimonta davvero straordinaria e inaspettata, che ci ha portato in finale. Lì ci sono stati dei festeggiamenti come se avessimo già vinto, ma alla domanda di qualcuno “argento sicuro?”, Alfredo come indemoniato, ha detto: “Non c’è argento, oro, oro, oro”, gridando come un pazzo. E questo devo dire mi ha caricato ulteriormente, anche se io sono a persona molto razionale, per cui non mi lascio volentieri portare, forse ho paura di farmi portare troppo dalle emozioni e quindi quando lo sentivo dire “oro, oro, oro”, dicevo “beh, adesso c’è la Francia, vediamo”. Però questa è stata veramente un’impresa chiave, straordinaria, e benché io abbia fatto un parziale molto positivo, posso dire che è stato, in questo caso, determinante Alfredo.
E c’era la Francia dove tu ti metti in mostra anche per un classico atteggiamento da garista puro e procedendo al limite del regolamento, anche un po’ per innervosire, per mettere delle inquietudini negli avversari. Con Di Martino c’è una particolare situazione in cui perdi tempo e cerchi di spezzare il ritmo all’avversario: era un qualcosa che avevi calcolato in una strategia predefinita oppure è puro istinto e pura improvvisazione come spesso ci vuole per girare pronostici sfavorevoli.
Improvvisazione no perché io improvviso poco, tutto quello che fai, soprattutto quando arrivi ad alto livello, è abbastanza calcolato nel senso che tu prendi parti della tua istintività e vedi se sono compatibili con la carriera che stai facendo. Quindi io di base sono uno che mette tutto in quello che fa senza prendersi troppo sul serio quindi il non prendere troppo sul serio quello che fai non toglie nulla all’impegno che tu ci metti ma cosa vuol dire che sei sempre disposto a perdere. Nella mia filosofia di sport e di vita se non sei disposto a perdere, non puoi vincere nulla di importante. Questo mi ha consentito per tutta la carriera di avere un atteggiamento di spavalderia, di sfida, di gioco, di quello che comunque alla fine lo sport dovrebbe essere: non ci si giocano i destini del mondo e neanche quelli personali. Questa leggerezza, ma leggerezza competitiva, mi ha sempre consentito di affrontare gente come appunto, Serchio, Brio o Di Martino, prendendoli in giro, provocandoli e senza mai permettere al contrario a nessuno di intaccare la mia intimità. Quindi io facevo arrabbiare la gente ma non mi arrabbiavo mai, fingevo di essere nervoso ma non ero mai nervoso. Cosa che mi sono portato anche nella vita reale e quindi anche oggi non consento ad eventi esterni di intaccare il mio carattere, la mia azione: l’azione non deve essere intaccata da fattori esterni.
Questo ti ha portato, sia prima che dopo Sydney, ad avere posizioni originali all’intero di un mondo che è spesso un po’ plastificato e un po’ conformista, quello della scherma. Alcune dichiarazioni ti hanno creato qualche grattacapo prima e dopo quell’Olimpiade e vedo che hai ancora come foto di WhatsApp la maschera con il pagliaccio disegnato sopra quindi magari ti è rimasto quello spirito un po’ sovversivo e ti chiederei di tornare, se ti va, su quelle frasi che ti avevano creato qualche problema (anche politico) nel ’99.
Il bello di agire secondo la propria intimità è proprio che non ti penti mai di niente, tutto considerato rifarei tutto quello che ho fatto. Premesso che, tornando al discorso di prima, Di Martino poi non mi ha parlato per un anno per questo match famoso dove invece lui era molto preso dalle sue emozioni e quindi il vedersi sbeffeggiato così non l’ha digerita facilmente. Così come Obry (Hugues, francese, ndr) che non invidio e che ho rivisto anche a Milano e ci siamo abbracciati, però non ha vissuto bene il peso di aver fatto perdere alla squadra una medaglia quasi vinta perché ti ricordo che noi siamo stati in vantaggio solo all’ultima stoccata quindi siamo sempre stati sotto e tutti ci davano per sconfitti. Parentesi a parte, se hai notato quando si parla di cosa hai provato quando sali sul podio, premesso che non è una cosa che provi dal nulla, nel senso se mi dessero il premio bancarella adesso probabilmente salterai sulle sedie e farei dei gesti inconsulti invece le Olimpiadi per quanto non sia garantita la vittoria è un percorso che tu hai fatto tutta la vita quindi lo metti in conto di poterle vincere e non è una cosa così esplosiva. Quando ho vinto le Olimpiadi, con questa medaglia in mano mi chiedevo che senso avesse o che utilità potesse avere. Se noti, nella foto del podio tutti ce l’hanno al collo e io la faccio sventolare e la giro nelle mani, come se volessi capire che utilità potesse avere una medaglia. E con utilità è non dico quella di portare messaggi, io non sono mai stato e non voglio essere un esempio per nessuno, però penso che ognuno di noi abbia il dovere di raccontare la sua storia in modo che nel caso qualche pezzo possa servire a qualcuno. Nel mio piccolo ho voluto da un lato svecchiare un mondo che era uguale dai tempi di Mangiarotti con la maschera colorata eccetera, dall’altro in certe occasioni ho sostenuto determinate idee che avevo e che coincidevano con magari qualche battaglia o qualche uscita di vario genere. Faccio un inciso: stiamo vivendo uno dei periodi di più tristi della storia olimpica, stiamo vivendo un momento in cui le sanzioni hanno colpito atleti olimpici e paralimpici russi e bielorussi che ai miei occhi di sportivo è una cosa completamente inaccettabile, quindi io mi sono assolutamente schierato contro queste inutili e faziose sanzioni e strumentalizzazioni dello sport. Qua stiamo parlando di valori dello sport e nell’Antica Grecia si fermavano le guerre per fare i Giochi Olimpici, oggi fermano i Giochi Olimpici per fare le guerre: c’è completamente uno stravolgimento di questi valori e dei significati a cui noi siamo veramente molto legati che ci portiamo dentro. Per cui ho fatto un sacco di cose, un sacco anche in cavolate. Mi sono presentato a questo mondiale e, visto che io e Rota ci chiamavamo “Pagli” e “Accio”, ti lascio immaginare perché, ho detto: “Che cosa è che mi rappresenta?”. Va bene un pagliaccio però non il pagliaccio col fiorellino perché comunque avevamo anche i denti abbastanza affilati e allora ho commissionato a un ragazzo del liceo artistico questa maschera dicendogli: “Fammi un pagliaccio aggressivo”. Lui, inspirandosi a “It” mi ha fatto quella e quando l’ho vista ho detto: “Ammazza, un po’ eccessiva però va bene”. L’ho portata a Nimes, l’ho mostrata ad Alfredo, che è scoppiato a ridere appena l’ha vista, e poi mi sono però mi sono reso conto del rischio. È andata bene, anche qua il destino ci ha messo lo zampino, e quindi è risultata una figata però se esci subito, fai la figura del co****ne. Poi ci sono stati altri eventi, duelli veri e altre polemiche. C’era stata addirittura un’interrogazione parlamentare per chiedere spiegazioni su questo fatto e c’è stata anche una curiosità: il giorno dopo della premiazione olimpica io sono andato al casinò di Sydney perché io sono stato anche un giocatore di poker professionista e avevo chiesto al direttore del casinò se si poteva scommettere la medaglia e anche questo ebbe un grandissimo eco e moltissime polemiche. Mi sarebbe piaciuto che questa medaglia, per beneficenza l’avrei fatto, avesse portato un risvolto pratico perché non sono molto sentimentalista e quindi per me la medaglia è un pezzo di ferro attaccato ad un pezzo di stoffa che ha l’unico pregio di essere un reminder di un percorso che hai fatto. Poi come oggetto non ha tutto questo valore quindi per una buona causa potrebbe anche essere sacrificato: nel caso non era nobilissimo l’oggetto della roulette però queste sono le cose che mi hanno caratterizzato come pazzo, ognuno poi mi ha appellato in diversi modi.
Hai parlato di essere sempre stato molto razionale, ma qual è, se c’è, il momento che se ci ripensi riprovi una certa emozione? Non per forza di quell’Olimpiade, della tua carriera sportiva, c’è stato un momento in cui hai ceduto un po’ e sei stato un po’ sentimentale?
Adesso mi fai venire in mente che, non tutte ovviamente, ma quasi tutte le vittorie iniziano con un momento di crisi e con un brutto momento. Quindi noi abbiamo avuto la Corea, che era un assalto perso, mi viene in mente anche Di Donna (oro nel tiro a segno ad Atlanta 1996 al termine di una gara pazza, ndr) che ha sbagliato il primo colpo, quasi come se l’evento negativo risvegliasse nuove energie e nuove capacità per affrontare qualcosa che forse solo razionalmente potresti giudicare inaffrontabile. Se devo dire che cosa mi ha segnato sentimentalmente, non è una vittoria ma una sconfitta: l’anno dopo le Olimpiadi, nel 2001, ho vinto i Mondiali e nel 2002 mi stavo riconfermando, ero il numero uno del mondo e ho incontrato quello che è stato poi il più forte schermitore della storia, Pavel Kolobkov, che ha vinto 5 mondiali individuali, un fenomeno. Ma con lui io mi trovavo molto bene, nei limiti con cui si può trovare molto bene con uno che ha vinto 5 mondiali. Nell’occasione per entrare nei quattro vincevo 12 a 8 e 14 a 12, ricordo che si arriva a 15, quindi era praticamente fatta e invece ho perso il match e anche un attimo la tranquillità perché ho scagliato la maschera a 30 metri e sono anche stato squalificato poi dalla gara, ho preso un cartellino nero che equivale ad un cartellino rosso del calcio, però ai Mondiali chissenefrega: arrivare quarto o ultimo o squalificato non cambia niente se non c’è medaglia. Questa è la sconfitta che mi torna ancora nel sonno, involontariamente, cioè non mi sogno mai di quando ho vinto le Olimpiadi o di quando ho vinto altre cose, invece a volte mi risveglio ancora per quella sconfitta dopo tutti questi anni.
Domanda più leggera, visto che hai parlato di scherzi e di una vita da villaggio e da squadra piena di episodi, uno che ci puoi raccontare di quelli che hai vissuto a Sydney e non solo?
Anche qua torniamo ai luoghi comuni, quando sento i sacrifici, ecc. Noi abbiamo fatto una vita straordinaria, possiamo solo passare il tempo a ringraziare per quello che ci è successo quindi abbiamo fatto tantissima fatica sì, ma anche quando fai l’amore fai fatica, ma nessuno si lamenta, giusto? È stato tutto un viaggio straordinario e in questa straordinarietà in cui abbiamo girato il mondo, abbiamo conosciuto gente. Poi la scherma è uno degli sport dove si gira di più, per cui veramente abbiamo fatto di tutto e abbiamo vissuto situazioni incredibili nei villaggi olimpici, che è una delle esperienze più belle che un’atleta possa vivere perché ti trovi immediatamente a contatto con atleti di cui hai sempre solo sentito parlare di altri sport e hai modo di conoscere, quindi c’è divertimento multiplo a tutti i livelli. Ci sono i sudamericani che organizzano feste e festini di tutti i tipi, anche se devo dire che tra i villaggi quello delle Olimpiadi è il meno divertente perché comunque l’Olimpiade è la competizione davvero più importante e quindi gli atleti cercano di fare i seri, mentre alle Universiadi, dove la competizione è meno importante, ci si lascia andare ad atteggiamenti festosi molto più evidenti. Su cose specifiche e fatti raccontabili devi chiedere ad Alfredo Rota, lui veramente anche quando ci vediamo mi racconta la mia vita, perché io veramente mi ricordo poco, e ci facciamo molto risate. Devo dire che anche questo fatto di avere poca memoria ha influito molto sulla mia freddezza, sulla mia stabilità: io non porto mai rancore, ma non perché sia San Francesco, forse perché veramente non ho una memoria emotiva e quindi è come se ogni giorno risvegliandomi, riniziassi tutto da capo e non mi ricordo traumi di avversari che mi spaventano.
Alle tue figlie come l’hai raccontata questa medaglia?
Ho due figlie, una di 10 (quest’anno 11) e l’altra di 19. Hanno sentito e percepiscono, però è molto meno romantico di quanto sembri perché non mi chiedono in realtà niente (ride, ndr). Tra l’altro ho il 100% delle figlie che non è sportiva, proprio non si sono appassionate. Io non ho nessun tipo di insistenza, secondo me ognuno deve fare la sua strada. C’è stato un racconto ma non molto appassionato. Sono in tutte le cose abbastanza riservato e quindi se mi viene chiesto, condivido, altrimenti mi faccio abbastanza i fatti miei. Però mia figlia grande adesso è andata a vivere a Sydney: questa è una coincidenza interessante, anche perché era il primo viaggio che faceva e ha voluto andare lì, purtroppo non c’è la mia statua come a Philadelphia c’è la statua di Rocky (ride, ndr) però la trovo una simpatica coincidenza che sia andata almeno per un periodo a Sydney, dove, al di là dei ricordi, si vive davvero bene. Spero che faccia una bella esperienza.