Daniele Molmenti ha scritto la storia della canoa azzurra. Impossibile dimenticare l’oro olimpico di Londra 2012, ma quello fu solo un tassello di una carriera memorabile. Carriera che Sportface ha voluto ripercorrere, in collaborazione con Pagine di Sport, incontrando in videochiamata Daniele Molmenti, che ci ha svelato diversi retroscena e ci ha parlato anche del suo ruolo all’interno della Federazione.
Daniele, iniziamo a raccontare la tua storia dal bambino Daniele
Ero un ragazzino molto vivace. La mia famiglia viveva in una bella casa di campagna a Torre di Pordenone e passavo il tempo all’aria aperta. Ho iniziato le attività sportive con il nuoto e soprattutto con il judo: i genitori mi indirizzarono a far judo perché insegna un grande senso rispetto per gli avversari.
Com’è iniziato dunque il rapporto d’amore con la canoa?
Aveva iniziato mio fratello con i campi estivi e io lo seguii, anche perché mia mamma non vedeva l’ora di mandarmi qualche ora via da casa! E così quando ho avuto l’età di 10 anni ho iniziato ad andare in canoa anch’io: il gruppo era il gruppo Kayak Canoa Cordenons. E’ iniziata cosi la mia carriera nella canoa.
Per raggiungere certi traguardi sono necessari i sacrifici fin dall’adolescenza. Tu hai avuto rinunce in quegli anni da adolescente?
In piena adolescenza pensi a motorino, discoteca e serate con amici. Io ero fortunato perché non ero molto ricercato dalle ragazzine per cui era facile dire di no alle uscite con gli amici! Quando poi ho capito che negli allenamenti facevo bene, mi sono reso conto che le rinunce non erano sacrifici, perché ciò che volevo era solo andare forte nelle gare.
Ci sono persone che hanno avuto un ruolo importante in questa fase della tua vita?
In particolare una donna e un’atleta: si chiamava Barbara Nadalin e partecipò ai giochi di Atlanta nel 1996. Barbara, quando ha capito che avevo voglia di fare quei sacrifici per diventar un campione, mi ha preso sotto la sua ala e ha iniziato ad aiutarmi negli allenamenti. Anche quando era freddo e pioveva, quando tanti non andavano agli allenamenti, ci ritrovavamo io, lei e il tecnico Mauro Baron. E’ stata un punto di riferimento della mia vita sportiva. Purtroppo è mancata nel 2012 per una malattia rara.
C’è stato un momento in cui hai capito che saresti diventato un campione?
Direi abbastanza tardi. Durante i primi anni, nonostante le medaglie, facevo sport perché mi divertivo, non pensavo a diventare il campione che poi sono diventato. Poi, nel 2004-2005, quando ho iniziato a prendere medaglie di coppa del mondo, ho cominciato a capire che potevo essere uno di quelli atleti osannati e seguiti dagli altri.
Torniamo indietro al 2001: vinci il tuo primo Europeo Juniores a Bratislava
Il ricordo più bello è legato agli allenamenti per quella gara. Era la prima volta che andavo in un canale artificiale e ricordo il divertimento e le sensazioni bellissime che mi facevano dimenticare la stanchezza dell’allenamento. Ricordo poi che nei giorni prima della gara, quando chiedevo al tecnico come dovevo affrontare quella gara la risposta del tecnico era sempre: “Tu devi continuare a divertirti”.
C’è poi un bell’aneddoto riguardante la finale. Nell’ultima combinazione c’era un salto di tre metri: gli occhiali mi finirono nella punta del naso e non vedevo più niente. In seguito lungo il percorso c’era un’onda per cui si passava o a destra o a sinistra: io ci son finito in mezzo, ma grazie alla forza fisica di cui ero dotato, son riuscito a passare indenne, pur senza veder niente. Feci il miglior tempo, la mia fu la traiettoria più veloce. Gli altri allenatori sono così corsi in partenza chiedendo agli atleti di passar in mezzo a quell’onda e così si sono tutti auto eliminati perché tutti hanno sbagliato
Nel 2007 l’incidente che cambia la carriera e forse anche la vita. Come sei tornato dall’incidente?
L’incidente è stata una delle cose migliori che mi son capitate nella vita. Prima mi credevo Superman, quello che vinceva, quello ricercato, quello senza rivali. Quell’incidente mi ha rimesso con i piedi a terra ridimensionando il mio credo. L’incidente mi ha tolto forza e mi ha dato dolore per tanti mesi che solo in seguito si è cronicizzato. Questo mi ha permesso di lavorare su aspetti che prima non ritenevo importanti: sensibilità pagaiata, sensibilità mio corpo con la canoa, aumento capacità tecniche. Lavorar su quegli aspetti mi ha fatto aiutato a crescere e a migliorare molto come atleta.
L’Olimpiade è il raggiungimento di un sogno per ogni sportivo: tu lo raggiungi a Pechino nel 2008
E’ stata un’Olimpiade particolare. L’iter di qualifica è stato cosi stressante che quando mi son qualificato avevo già perso l’entusiasmo, ero già stanco. Mi è mancata la parte di curiosità e divertimento e non ho vissuto l’Olimpiade come poi ho fatto a Londra. Il risultato è la conseguenza: non ho un bel ricordo, non ho vissuto bene neppure l’esperienza di squadra. A Pechino ero l’atleta che “doveva fare qualcosa” e non l’atleta che “voleva far qualcosa”.
Il 2010 è un anno trionfale: Mondiale e Coppa del Mondo
Dopo Pechino con Ferrazzi abbiamo fatto un programma in cui volevamo vincere il mondiale 2010, un programma che poi volevamo ripetere per Londra 2012. In Coppa del Mondo vincevo nonostante fossi in carico verso i Mondiali: era un periodo in cui avevo eliminato tante distrazioni. Lavoravo con un mio staff: con Pierpaolo, con il mio medico e con il fisioterapista. In Slovenia era un mondiale in cui giocavo quasi in casa, poiché in quel canale ci andavo quasi ogni weekend. In più Tacen era la casa di Peter Kauser, l’amico rivale di quegli anni in cui ci scambiavamo i tutti titoli. Lavoravo di strategia e a livello fisico e tecnico mi sentivo prontissimo.
Come ci si prepara ad una gara come quella di Londra 2012, l’appuntamento della tua vita sportiva.
Ci sono diverse fasi. Dopo Pechino nasce il quadriennio olimpico con tanti step in cui aver le conferme che ciò che stavo facendo era la cosa giusta. Questo mi aiutò ad arrivare a Londra con certezza che sarei stato perfetto. Avevo lavorato diversi mesi nel canale di Londra. L’ultimo periodo abbiamo fatto una ricerca del mezzo perfetto per quel canale: a un certo punto mi son trovato a Londra con 12 barche con differenze minime in cui studiavamo tutti i dettagli. Tutte le energie erano spese per quella prestazione. Quando è arrivato il momento dovevo semplicemente fare quello che facevo tutti i giorni, non avevo nessuna pressione.
1 Agosto 2012: la data che cambia la vita. L’anniversario della vittoria olimpica del tuo allenatore, il tuo compleanno e la finale di Londra
Diciamo che era scritto nel grande libro del destino! E’ vero, sono coincidenze, però mi piacciono i numeri. Quel 1 agosto quando mi sono svegliato ho fatto prima i complimenti al mio allenatore per la sua medaglia di vent’anni prima e quando lui mi ha detto “bene, ora vai a prendere la tua” è partito quel meccanismo mentale che ti fa ragionare come un cecchino che non deve sbagliare il colpo. Ed è partita la giornata che mi ha cambiato la vita.
C’era tensione prima della partenza?
Era molto più teso il mio allenatore! Fatta la semifinale e fatta l’analisi tecnica, ero nel circuito e stavo guardando il ceco Hradilec. Ha fatto 94 secondi, 7 secondi più veloce di chi era sceso prima di lui, e l’allenatore rimase un po’ sorpreso. Io l’ho guardato e gli ho detto, “nessun problema, faccio 93” e sono andato verso la mia canoa. Inoltre, racconto un altro aneddoto: nel tapis roulant verso la partenza c’era l’immagine di De Coubertin che diceva “l’importante è partecipare” e come avessi avuto il barone davanti a me ho detto “No, l’importante non è solo partecipare”. Da lì in poi non mi ricordo più niente.
Quindi la gara l’hai dimenticata?
Quando vedo le immagini, sembra tutto in terza persona.
Qual è stato il tuo primo pensiero dopo l’arrivo?
Innanzitutto ho visto il tempo e ho visto che era il tempo che avevamo ipotizzato per una medaglia e una probabile vittoria. Dopo il primo urlo, ho incrociato gli occhi di Peter Kauser, l’amico rivale: era l’ultimo a partire, il favorito e il rivale di sempre. Il mio è stato un urlo positivo verso di lui, come dire adesso tocca a te, una sfida a invitarlo a far meglio. In quella giornata ci giocavamo chi era il più forte tra me e lui.
Se dovessi descrivere a parole le emozioni dell’inno che suona, davanti ai cinque cerchi, che parole useresti?
Gli aggettivi non ci sono, è un mix di sensazioni, emozioni: c’è la soddisfazione e la felicità. Ma poi c’è sensazione di liberazione di un peso che era lì da diversi anni fa. Da tanti anni mi svegliavo e vedevo lì quella medaglia, e mi comportavo sempre in modo impeccabile per vederla brillante. Quando cedevo alla fatica, allora quella medaglia diventava trasparente. Dopo 4, se non 8 anni che vivi così, quando questa medaglia te la danno, è una sensazione di liberazione. Come l’ultimo giorno di scuola quando dici, “finalmente è finita”.
A Londra hai avuto l’onore di essere l’alfiere alla cerimonia di chiusura
E’ stata la ciliegina di una torta che era già buonissima. Mi ha fatto molto piacere che il CONI abbia scelto me dopo che mi ha conosciuto: dopo la medaglia ho raccontato a televisione e giornali la mia storia. La motivazione del CONI è stata perché era la medaglia più vicina ai giovani, una medaglia dedicata agli italiani che rimangono in Italia. Sano patriottismo e attaccamento alla bandiera sono stati apprezzati!
E la canoa color Rosso fuoco?
E’ rosso Ducati. Spunti sono arrivati anche dalla Ferrari, ma per me quel Rosso è Ducati. Ero un fan di Superbike, un fan di Tray Corser e Troy Bayliss. Gareggiare con la canoa era come emulare l’Italia che va forte con il rosso. E così ho iniziato con quel colore e colore che vince non si cambia.
Chi è stato per te Pierpaolo Ferrazzi?
E’ stato ed è un ottimo amico. E’ stato un grande tecnico, anche se la programmazione me la facevo da me. Mi dava spunti tecnici e per le strategie di gara. Dal 2010 in poi è stato l’amico che mi permetteva di non distrarmi. A quei livelli l’atleta sa quello che fa, sa quello che sbaglia. Importante invece è che ci sia qualcuno che ti riporti nella giusta strada quando ti stai allontanando. Ad esempio dopo tante gare che fai lo stesso errore che magari sottovalutavo, lui se ne accorgeva e mi dava spunti tecnici che da solo non riuscivo.
Com’è stata la decisione di dover smettere?
A un certo punto ho capito che non avrei più raggiunto lo stato di forma degli anni d’oro. Quando prendendo in braccio mio figlio da terra ho sentito una fitta alla schiena, lì ho capito che dovevo smettere, non c’era più divertimento.
C’è un aneddoto simpatico relativo ai tuoi genitori durante la finale olimpica…
Ho letto nei giornali qualche giorno dopo che la mamma era a casa con i giornalisti, mentre il papà era nei campi a raccoglier le more perché non gestiva lo stress. Riconosco qui i genitori: la mamma è quella pragmatica, quella con i pantaloni, quella che si mette davanti alla tv per dire “ecco mio figlio”. Mio papà invece è l’immagine emotiva e romantica, la sua non è una fuga, è portare la mente da un’altra parte per non affrontare questa cosa che è più grande di lui. Non voleva far vedere la sua emotività ai giornalisti e ha preferito raccogliere le more, tra l’altro buonissime.
Hai deciso di allenare fin da subito, era qualcosa a cui pensavi già nell’ultimo periodo da atleta o invece è successo quasi per caso?
Sicuramente era una cosa che avrei voluto fare. L’ho sempre detto al presidente: ho preso così tanto dalla Federazione che sarebbe un peccato che io abbandonassi il mondo della canoa e la mia esperienza fosse persa e non data alle nuove generazioni. Più che allenatore mi vedo come manager sportivo, nella gestione delle risorse umane e nell’organizzazione delle risorse della Federazione. Nel 2016, appena ho finito la carriera, mi sono iscritto a un Master di Management sportivo alla Bocconi di Milano proprio per avere gli strumenti per dire “non sono solo un ex atleta che vuole decidere per la Federazione, ma sono un professionista che si mette a disposizione e in più sono stato anche atleta”. E così mi sono proposto al Presidente che mi ha proposto al Consiglio Federale e hanno accettato.
Infatti, parli spesso di “progetto” e “progettare” anche a livello di Federazione. Quanto è importante questo per poter seguire al meglio tutti gli atleti, di varie fasce d’età?
Innanzitutto, l’obiettivo sono i Giochi Olimpici e non si parte con questo progetto 4 anni prima ma 8-12 anni prima. Da qui è nato questo sistema di valutazione degli atleti, soprattutto quelli giovani, dove bisogna rispettare dei passaggi educativi per fare i giusti step di crescita in modo che quando arrivano nella squadra seniores non ci siano carenze, criticità o punti deboli. E’ un metodo che va a valutare tutti i ragazzini di ogni club che vengono a far canoa metterli nelle condizioni di poter arrivare a fare il risultato ai Giochi Olimpici. In questo metodo è evidente l’importanza dell’aspetto mentale, anche a livello di consapevolezza che possono avere gli atleti, che spesso è lo step decisivo che consente di arrivare a risultati davvero importanti.
Questo aspetto lo segui in prima persona o ci sono invece dei mental coach che aiutano gli atleti?
Noi come Federazione proponiamo il “Metodo Sfera” del Professor Giuseppe Vercelli, che è lo psicologo della Juventus, della nazionale di sci e di quella di canoa ai miei tempi. Partendo da questo metodo noi costruiamo la base, dove gli atleti hanno i loro compiti da seguire, così come noi tecnici abbiamo i nostri strumenti per aiutare gli atleti. Una cosa a cui tengo particolarmente è di non sostituirci alle figure predisposte: noi tecnici abbiamo solo degli strumenti condivisi con lo psicologo che ci permettono di dare spunti positivi e costruttivi agli atleti.
In generale, preferisci seguire gli atleti in età più giovane che muovono i primi passi o quelli che arrivano nella squadra seniores e quindi hanno già un po’ d’esperienza anche internazionale?
Di base io preferirei non seguire gli atleti ma seguire i tecnici e quindi fare il direttore tecnico. I ragazzi giovani sono quasi più facili da allenare perché hanno talmente tante cose da migliorare che è facile farli migliorare. Al momento, io direttamente seguo quattro atleti della prima fascia della squadra PO (Probabili Olimpici), dove i margini sono molto ristretti e quindi si va a lavorare su tanti aspetti psicologici, tecnici e fisici che sono delicati. Le mie esperienze mi permettono di mettermi davvero nei loro panni e trovare delle soluzioni, quando magari un tecnico che non ha mai affrontato un’Olimpiade in prima persona non riesce a capire le sensazioni e le emozioni che si provano.
E questo fa parte anche del cosiddetto “Metodo Molmenti”
Sì, io lo chiamo così per riconoscere un qualcosa che ho catalogato e che sta portando risultati. Il “Metodo Molmenti” vuole aiutare a trovare il metodo per aiutare ogni atleta. C’è una massima personalizzazione tecnica, fisica, di linguaggio e mentale dove l’atleta è al centro. Il nostro compito è trovare tutti gli strumenti che ci permettono di portare poi quell’atleta ad esprimere nel miglior modo possibile la sua prestazione e il suo essere in canoa. Il Metodo Molmenti ha funzionato con me ed altri atleti, ma con gli spunti anche di altre Federazioni, è in continua evoluzione, perché sono il primo a dire che la bacchetta magica per tirar fuori il campione non ce l’ho. Questo è un metodo che ci fa ragionare in modo ordinato e per trovare le modalità giuste per affrontare le criticità degli atleti.
Questo metodo potrebbe essere applicato anche ad altri sport?
Secondo me sì. Io, soprattutto in questa quarantena, sto cercando di scriverlo in modo che possa essere d’aiuto per altre Federazioni e colleghi di altri sport. Per me la Federazione è come un’azienda, quindi con del personale da valutare e trattare e da mettere nelle condizioni di dare il massimo. L’obiettivo è proprio questo: lo sport deve raggiungere il massimo, deve portare risultati, che sono medaglie ma sono anche miglioramenti sociali, economici e culturali. La mia formazione è questa e mi piace vedermi più come manager sportivo che come allenatore.
Parlando di imprese sportive, ce ne sono alcune a cui sei particolarmente legato?
L’impresa a cui sono più legato è la mia a Londra. Io avevo un diario personale che andavo a leggere magari un anno dopo: ad esempio rileggere il mondiale 2010 mi ha aiutato a capire come vincere l’Olimpiade. E’ un consiglio che dò anche ai miei ragazzi: scrivete un vostro diario personale, perchè le cose scritte rimangono. Comunque, l’impresa a cui sono più legato, è la mia!
Guardando invece alla situazione attuale, come vedi lo sport dopo la pandemia?
Io sono convinto che le persone avranno voglia di stare all’aria aperta e di stare assieme. Lo sport sarà un momento sociale su cui ripartire , sarà uno dei modi migliori per ritrovare sé stessi. Sicuramente chi faceva sport prima lo farà anche dopo, e probabilmente ne farà di più.
Infine, quali sono i sogni di Daniele Molmenti, come uomo di sport e come persona?
In campo sportivo vorrei lasciar qualcosa che funzioni per tutti i canoisti d’Italia e non solo. Se il Metodo Molmenti dovesse funzionare, quello potrebbe esser un mio obiettivo. Come persona vorrei che i miei tre figli, tutti maschietti, siano felici.