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Quei trentotto minuti nella nebbia di Calabasas, a nord di Los Angeles, mentre il mondo pensava a tutto tranne che alla possibilità di perdere uno dei suoi interpreti più luminosi dello sport, hanno stracciato il velo di innocenza sul 2020 e sulla quotidianità sportiva mondiale. Mentre l’elicottero 72EX si schiantava al suolo togliendo la vita a Kobe Bryant, a sua figlia di tredici anni Gianna e ad altre sette persone, il 2020 si arricchiva del primo capitolo di una fama nefasta che ha portato l’opinione pubblica a sviluppare la retorica dell’annus horribilis, tra un “Cos’altro potrà succedere?” e un “Speriamo finisca presto” che ha quasi sminuito il valore delle individualità scomparse, riducendole ad un faldone di dolore dalle forme ormai non riconoscibili tra di loro e da lasciarsi alle spalle al più presto. Sembra passato un secolo dalla morte di Kobe Bryant che a sua volta prese il posto nel dibattito mondiale della crisi tra Stati Uniti e Iran e delle varie ipotesi di terza guerra mondiale legate all’assassinio di Soleimani. Ad inizio gennaio coronavirus era solo una brutta parola ma già un presagio. Erano poi i tempi di discussione sullo Ius culturae. E la morte di Kobe Bryant offrì uno spunto persino di carattere politico. Sergio Mattarella mise l’accento sulla formazione di Bryant “nelle nostre scuole elementari e medie” sottolineando come sia la “comunanza di studi” più di “legami politici, istituzionali, ed economici, che lega l’umanità attraverso i suoi confini ed è antidoto alle incertezze internazionali”. LeBron ci mise tre giorni a dedicargli un pensiero sui social. Alla fine ci riuscì e nel lungo messaggio spiccava una frase: “Raccoglierò il tuo testimone“. Anche fuori dal parquet. La morte di George Floyd vide LeBron in prima fila. Icona di una generazione che non sa stare in silenzio sul tema razzismo. Come Kylian Mbappé, volto stupendo di uno sport che sa educare e sa impegnarsi sul tema sociale, anche se c’è bisogno di sospendere una partita decisiva in Champions League. Come del resto dimostrano le iniziative in tema sanitario a favore delle realtà locali colpite dal virus da parte delle società di calcio. Tanti club – anche italiani – si sono impegnati per raggiungere i tifosi più anziani, per dare conforto e aiuto. Un calcio che si è fermato e che è riuscito a ripartire tra mille difficoltà e qualche dolore.
Ormai da diversi anni, un piccolo spazio della cerimonia degli Oscar è dedicata al ricordo di attori, registi, addetti ai lavori scomparsi nell’anno solare. Alla fine del 2020 un ricordo simile per il mondo del calcio non è stato possibile semplicemente perché l’Oscar dello sport più popolare al mondo – il Pallone d’oro – è stato annullato. L’ultima beffa per un calcio stravolto e deformato sotto i colpi dell’emergenza sanitaria. E che piange la scomparsa di miti assoluti. Diego Armando Maradona si è spento all’età di 60 anni lasciando un mondo impreparato alla notizia dell’addio del più forte di tutti. Uno “Stadio Maradona” già c’era, a Buenos Aires, un altro gli è stato intitolato a tempo di record, quel San Paolo che ha fatto sognare come nessun altro, e un altro che lo diventerà presto, quello di La Plata, l’ultimo prato verde che ha calpestato. La cosa più bella l’ha scritta Pelè: “Un giorno giocheremo insieme in cielo“. E chi altro se no? Come del resto, chi altro poteva scrivere la cosa più emozionante per Paolo Rossi, se non Trapattoni: “I giocatori non dovrebbero morire prima degli allenatori”. Un allenatore come Gigi Simoni, ricordato dall’affetto di tutta Italia. Il 2020 dell’addio a Pierino Prati, l’unico calciatore italiano ad aver realizzato una tripletta in finale di Coppa dei Campioni. E di Pietro Anastasi, simbolo della Juventus anni ’70 e ultima vittima celebre di quella maledetta sla. E Mario Corso, bandiera interista nell’immaginario collettivo per la ‘foglia morta’ di cui era maestro. Ricordarli tutti è impossibile. Non dimenticare questo anno sarà invece, purtroppo, molto facile.
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