Lo confesso, sabato notte ho dormito poco, sia perché nel tardo pomeriggio ho corso una garetta tirata che mi ha lasciato un po’ di adrenalina nel sangue, ma anche e soprattutto perché il pensiero di dover affrontare i “Percorsi di Marco Olmo” alla domenica mattina sinceramente mi spaventava.
Io sono un podista amatoriale, un cosiddetto “tapascione”; certo mi alleno con regolarità quasi tutti i giorni e gareggio spesso, ma prima di domenica non avevo mai partecipato ad una competizione di corsa in montagna. L’idea era venuta un paio di mesi fa, quando avevo contattato Marco Olmo per un’intervista: “Vieni a Robilante l’11 giugno, vedrai che ti diverti!”. Così mi ha detto e io, ovviamente, da incosciente quale sono, ho accettato con entusiasmo.
Sveglia all’alba e arrivo a Robilante verso le 8.00 del mattino, dopo quasi 2 ore di viaggio in compagnia dell’ultramaratoneta ed amico Marco Chinazzo. Giusto il tempo di ritirare il pettorale , fare 4 chiacchiere con gli organizzatori e poi via a cambiarsi per il riscaldamento. Lo start è alle 9.30: prima della partenza prende la parola Marco Olmo che invita tutti a competere, ma a dedicare anche un po’ di tempo a guardare la bellezza della vallata che ci ospita. Tanti sorrisi e volti distesi, un atmosfera di festa, che si respirerà durante tutta la giornata.
Pronti via, si parte. Io mi sistemo prudente a centro gruppo, avendo bene in mente le parole del mio allenatore Maurizio Di Pietro, con cui ci eravamo confrontati in settimana: “Quella è una gara completamente diversa da tutto ciò che abbiamo fatto fino ad ora. Prendila con tranquillità e divertiti, ma non spingere troppo soprattutto all’inizio: se vai in crisi in una corsa del genere, rischi di pagarla nelle settimane a venire. Deve essere un buon allenamento e una bella esperienza, nulla di più”. Appena usciti da Robilante, l’asfalto lascia subito spazio allo sterrato ed alla salita: salgo con il mio passo; ad un tratto alla mia destra mi passa Marco Olmo: partito in fondo al gruppo, ora pian piano lo sta risalendo con una cadenza armonica, tipica di chi conosce questi sentieri alla perfezione. Lo guardo, non dico nulla perché sono a corto di fiato, ma ne ammiro la determinazione e mi chiedo se sia consapevole dell’esempio che dà, lui quasi settantenne a salire di corsa lungo quelle strade: “se lui è arrivato così a 70 anni, forse posso farcela anche io”, questo mi viene in mente mentre lo vedo avanzare davanti a me al doppio della mia velocità.
Arrivo in cima alla prima salita, non senza qualche attimo di difficoltà, ora però la strada spiana leggermente per cui riesco a prendere un discreto ritmo e inizio persino a recuperare qualche posizione, che riperdo puntualmente in discesa. Ho paura di cadere, mentre gli altri mi sfrecciano di fianco, senza neanche quasi poggiare i piedi per terra.
Finalmente vedo il primo ristoro, penso che sta andando bene, trovo Marco Chinazzo ed insieme iniziamo la seconda salita. La pendenza appare fin da subito quasi proibitiva per la corsa, ci provo, resisto, ma poi inizio a camminare; appena posso cerco di correre, ma è veramente difficile. Quando arriviamo in cima, ad oltre 1500 metri di quota, improvvisamente il bosco lascia spazio al panorama, mi giro a destra e lo spettacolo della Val Vermenagna toglie il fiato; Olmo aveva ragione. Siamo su un falsopiano, ho ripreso a correre, ma quasi mi fermo di fronte a quella vista suggestiva e penso “Beh forse ne valeva la pena”. Riparto ed arrivo con Chinazzo al secondo ristoro posizionato all’inizio di una nuova discesa: lui è uno specialista per cui lo invito ad andare avanti, io preferisco scendere con il mio passo. Questo tratto in discesa, per un neofita come me, è sportivamente drammatico: un muro ripidissimo, sembra quasi di fare uno slalom gigante su una pista da sci, mi superano almeno in 20, non riesco a capire come facciano a buttarsi giù in quel modo. Provo ad accelerare ma scivolo una prima volta, poi una seconda, forse non è roba per me. Mi rialzo e procedo con cautela, ogni posizione che perdo è una coltellata al mio orgoglio, ma con gli anni ho imparato a capire che ci sono battaglie che non si possono vincere, per cui bisogna solo limitare i danni.
Finalmente la strada spiana leggermente ed i sentieri sono più liberi, siamo oltre il 10°km, 2/3 abbondanti di gara se ne sono andati, prendo coraggio e ricomincio a correre discretamente. Poco avanti però trovo Marco Chinazzo che cammina: “Oh Marco che fai? Non mi avrai per caso voluto aspettare?” “Eh magari Fabri, ho preso una storta”. Gli guardo il piede, la caviglia sembra una pallina da tennis. Il soccorso sta per arrivare, per cui mi esorta a non fermarmi ed a proseguire, ci rivedremo all’arrivo. Gli dico di tener duro e riprendo la mia gara, ora siamo in falsopiano per cui riesco a spingere bene sull’acceleratore e supero 4-5 di quelli che mi avevano bruciato nella discesa ripida.
Ancora un breve ristoro e poi via verso l’ultimo tratto di gara. Non conosco il percorso per cui mi illudo che la salita dura sia finita. Non è così. Curva secca a destra ed ecco che la strada risale, rallento ma continuo a correre, fino ad un nuovo “muro” sul lato di una collina, questa volta da scalare. E’ durissima, non corre nessuno, tutti camminano ed io, non lo nascondo, mi aiuto anche con le mani, quasi volessi arrampicarmi, non voglio perdere altre posizioni. Arrivo in cima a quest’ultima ascesa e trovo un ragazzo ed una ragazza che, in un improvvisato ristoro, ci danno acqua e sali minerali. “Dai che la salita è finita” abbozza Lui. Io lo guardo stralunato e rispondo “Davvero o scherzi?”, Lui si mette a ridere “Davvero, davvero” mi risponde e nel mentre mi dà una pacca sulla spalla e mi incoraggia “Forza ragazzo!”. Io bevo i sali minerali camminando qualche passo in avanti e probabilmente, nella concitazione del momento, mi dimentico anche di ringraziarlo. Ecco, vorrei farlo adesso, mi piace pensare che quel ragazzo possa leggere questo racconto, “GRAZIE” per il tuo gesto. Chi corre per vincere è abituato al pubblico ed agli applausi; chi, come me, corre nelle retrovie, trova spesso le strade vuote, per cui l’incitamento genuino della gente vale più di mille medaglie.
Il ragazzo è stato di parola, la salita è finita veramente e la discesa adesso è dolce, corribile anche per me. Le strade sterrate diventano ampie, mancano 2 km al traguardo, decido di tirare fino alla fine, “il pettorale va onorato fino in fondo” ripeto tra me e me. Vedo in lontananza un concorrente, mi faccio coraggio, provo ad accelerare ed il distacco si accorcia. “Questo lo passo” penso. Accelero ancora e riesco a ricucire lo strappo, lo supero e guardo avanti. Ormai manca poco, sento la voce dello speaker nel campo sportivo di Robilante. Sono veramente stanco, vedo il traguardo, corro deciso senza voltarmi indietro. E’ finita. 63° posto assoluto, 10° di categoria.
Passo il traguardo e, come d’abitudine dopo ogni corsa, cammino da solo per qualche decina di metri, ripercorrendo con la mente tutta la gara. Fatica, stanchezza, paura di cadere, ma anche paesaggi splendidi, sentieri mozzafiato, organizzazione impeccabile, bellissime persone. In cima alla montagna avevo pensato che forse, nonostante la durezza del percorso, ne era valsa la pena; al campo sportivo di Robilante ne ho avuto la conferma: probabilmente la corsa in montagna non è la mia corsa ma certamente oggi “ne valeva la pena”.