Editoriali

La mia maratona di Pisa: tre ore e due minuti di emozioni

Fabrizio Lavezzato
Fabrizio Lavezzato

Maurizio voglio fare un’altra maratona”. “Sì, va bene, stai tranquillo, a primavera ne corriamo una”. “No, non hai capito, la voglio fare quest’anno, a Pisa, il 17 dicembre”.

Lunedì 13 novembre. Il giorno prima ho fatto il personale a Busto Arsizio nella mezza. Il mio allenatore, Maurizio Di Pietro, mi chiama al telefono per fare il punto della situazione e chiarire alcuni punti della preparazione sui cui non eravamo stati completamente d’accordo. La mia richiesta lo spiazza, ma dopo un’iniziale silenzio risponde “Va bene, oggi corri 40 minuti, domani riposati e da mercoledì mettiamo in piedi qualcosa. Abbiamo cinque settimane di tempo, la condizione è buona, ma devo pensare bene a cosa farti fare

E’ cominciato così il mio piano di correre a Pisa domenica scorsa. Cinque settimane di preparazione specifica, in condizioni a volte poco favorevoli, giusto per usare un eufemismo, come galaverna (il termine gelicidio mi fa venire da ridere), pioggia e freddo, soprattutto considerando che io mi alleno sempre, ad esclusione del weekend, nel tardo pomeriggio, dopo il lavoro. Cinque settimane in cui ho constatato l’amicizia sincera di Paolo Martinotti, di cui scriverò dopo.

Domenica mattina arrivo al deposito bagagli a Piazza dei Miracoli verso le 7.45, in ampio anticipo rispetto alla partenza prevista alle 9.00. Il cielo è limpido, bel sole ma anche freddo pungente, con temperatura intorno a 1°C. Mi preparo e indosso un vecchio pigiama per proteggermi dal freddo durante il riscaldamento. Le gambe stanno bene, il morale anche. Ho un personale di 3h03’11’’, stabilito ad aprile a Milano: l’obiettivo è quello di batterlo, anche se il sogno vero è quello di abbattere il muro delle tre ore. Gli allenamenti fatti mi confortano.

Alle 8.40 circa entro in griglia. Dietro di me, nella griglia riservata agli atleti con un tempo accreditato superiore, scorgo Diego Picollo, uno dei podisti più forti del Basso Piemonte. “Oh Diego! Ma che cosa ci fai in terza griglia?”. Ha un personale di 2h40’ circa ma, per un disguido tecnico, il suo pettorale prevede che parta dietro. Scorgiamo due giudici di gara, esponiamo il caso, prevale il buon senso. Diego viene fatto partire in seconda griglia con me, a pochi metri dallo spazio riservato ai Top Runners, dove peraltro Diego dovrebbe essere inserito di diritto. Tra iTop si sta scaldando Corrado Pronzati, pettorale n.5 e personal best di 2h23’ circa. Ho scoperto per caso qualche mese fa che suo nonno abitava a Vesime, in provincia di Asti, il mio paese d’origine. Da quando me lo ha detto, io vado in giro a vantarmi sul fatto che Vesime abbia una grande tradizione in fatto di maratoneti: “C’è Pronzati e poi ci sono io” dico a tutti, ma quando pronuncio il mio nome accanto a quello di Corrado, mi viene subito da ridere.

Alle 9.00 precise si parte. Prendo subito il mio ritmo, anche se il tratto cittadino iniziale non è semplicissimo, perché siamo ancora tutti vicini, le strade non sono larghissime e poi ci sono un po’ di curve. I primi km come al solito vanno via svelti. Il passo è regolare. Come dice Maurizio, la maratona comincia al 30°km, prima è solo riscaldamento. Si forma un piccolo gruppetto che corre allo stesso passo; oltre a me ci sono Giulia, Alessio e Nicolò. Tutti con l’obiettivo di stare sotto le tre ore. Si collabora, ci si sostiene con qualche parola. “Io sono di Jesi” dice Alessio. “Jesi? Roberto Mancini!” rispondo quasi meccanicamente. “Si Roberto Mancini, ma anche la Vezzali e molti altri campioni di scherma” prosegue Lui con tono orgoglioso. Annuisco ed un po’ mi vergogno della mia deformazione mentale per cui, ogni volta che qualcuno che non conosco mi nomina la sua città di provenienza, io devo associare il nome di qualche calciatore noto che ci sia nato o ci abbia giocato.

Passiamo i primi ristori, il ritmo gara è perfetto 4.13 – 4.15 al km di media, le gambe stanno ancora bene. Intorno al 18° km inizia un lungo rettilineo da percorrere nei due sensi. Tra poco transiteranno i primi: è sempre emozionante vedere il ritmo a cui corrono certi atleti. Passa il battistrada, è solo al comando. Si chiama Antonino Lollo, vincerà Lui. Per puro caso l’ho incontrato la sera prima al ritiro pettorali, stavamo cercando entrambi la porta d’ingresso all’Expo. “Domani sarà il mio esordio in maratona” mi dice. “Veramente?” ribatto io. “Si, sulla mezza ho un personale di 1h08’ circa” . “E ‘sti cazzi!” rispondo d’istinto. Ci facciamo una risata e mi confida che il suo obiettivo per il giorno dopo è quello di chiudere in 2h28’’ circa, ci riuscirà ampiamente. Alle sue spalle transitano, appaiati, Dario Rognoni e Corrado Pronzati che saranno rispettivamente secondo e terzo al traguardo. L’azione di Corrado è ottima, sembra che non tocchi quasi l’asfalto mentre corre. Appena lo scorgo, gli mando un urlo di incitamento.

Passiamo il check point della mezza in 1h29’30’’ circa, pienamente in tabella di marcia. Poco dopo il 21°km arriva però il giro di boa per percorrere il vialone al contrario. La sensazione è da subito non buona. Inizio a sentire delle folate di vento gelido che mi infastidiscono. Penso subito che ci vorrebbe l’aiuto di Paolo. Già Paolo, che corre molto più veloce di me, per due domeniche consecutive ha rinunciato a gareggiare per venire a farmi il ritmo negli allenamenti di preparazione. Tre settimane prima eravamo a Castellazzo Bormida, dovevo fare 25km a 4.10 di media. C’era vento, ad un certo punto mi dice: “Mettiti dietro, non guardare l’orologio, il ritmo te lo faccio io”. Praticamente come vedere in un Tour De France Miguel Indurain fare da gregario al fratello Prudencio. Se sono qui oggi è anche merito di Paolo.

Ci vorrebbe Paolo, certo, ma forse non basterebbe nemmeno lui. Il freddo comincia a prendermi le gambe. Resisto, la media è ancora buona. Siamo intorno al 27° km, Nicolò ha accelerato, Alessio purtroppo è un po’ in difficoltà. Mi si affianca Giulia e dice “Se teniamo il ritmo costante ce la facciamo”. Annuisco e mi faccio coraggio, ma qualche crepa nella mia certezza comincia ad arrivare, con il vento freddo contrario spendo tante energie per tenere qual maledetto ritmo.

Il momento peggiore arriva sul lungomare alla Marina di Pisa, siamo al 29° km, il vento mi sta massacrando le ossa. Trangugio il secondo gel ad energia rapida, nemmeno sento il gusto. Mi tolgo i guanti, nemmeno so perché, quasi volessi somigliare a Pantani quando si toglieva la bandana sulle salite. Mi rendo conto che mi sto sedendo sulle gambe e penso all’ultimo allenamento fatto con Maurizio a Giardinetto. “Maurizio faccio fatica!” abbozzavo, “Stai li e lavora, soffri. Non sederti, fai lavorare quelle caviglie. Vuoi fare la maratona? La maratona è questo. La maratona è questo.” ribatteva lui tenendomi i passaggi ad ogni km. Ci provo. Cerco di correre in maniera economica, ma l’azione diventa sempre più “impastata”. Me ne rendo conto da solo.

I km dal 33 al 36 vanno moderatamente male, nel senso che li corro più lento ma, forse, sono ancora in linea con le tre ore. Metto sulla strada tutto quello che mi rimane, il cuore più che i muscoli, e stacco il 37° km a 4.15. Non ne ho più, mi sento il freddo nelle ossa, le gambe pesano. Giulia si gira, io annuisco come a dire “va tutto bene”, ma in realtà è l’esatto contrario. La sua azione invece è ancora brillante, sta correndo alla grande, centrerà l’obiettivo. Mentre penso a tutto ciò, vedo i palloncini dei pacer delle tre ore che si allontanano pian piano davanti a me. E’ la sensazione peggiore. Tu provi a correre, Ti sembra di andare fortissimo, poi guardi il cronometro e leggi 4.45 di media. Forse in quel momento sarebbe meglio un pugno in faccia, farebbe meno male. E’ inutile recriminare, il cronometro è come lo specchio a cui ci si guarda al mattino: non mente mai.

Mi disunisco, ma è solo un attimo. A ritirarmi non ci penso nemmeno, a camminare neppure. Faccio due conti a spanne, se non rallento oltre, posso ancora fare il personale. Sono rimasto solo, mi faccio coraggio e penso agli allenamenti con la galaverna alle 8 di sera, mancano quattro km, quattro maledettissimi km. Qui non si butta via niente e si arriva alla fine, lo devo a me stesso, alla mia famiglia che sopporta la mia insana passione, a mio fratello Beppe, a Paolo e, soprattutto, a tutti quelli che vorrebbero correre e non possono farlo perché sono infortunati.

Il rientro nel centro abitato di Pisa è anonimo. Per le strade poca gente, tante macchine in coda. Io sono in difficoltà, ho proprio male alle gambe adesso. “La prossima volta stai a casa!” mi dice un tizio dalla macchina. Il mio carattere, notoriamente conciliante, mi porterebbe a fermarmi e sfondargli la portiera a calci. Oggi no, tiro dritto senza nemmeno girarmi, devo fare il personale. Penso solo che se l’atletica italiana è da anni con le pezze al culo, la colpa non sia solo da attribuire alla gestione dilettantesca di taluni dirigenti, ma anche alla totale mancanza di cultura sportiva in gran parte della società civile.

Guardo il cronometro. Scoccano le 3 ore di corsa. Io sono al km 41.6 circa. Mi sono mancati 600 metri su 42 km per stare sotto le tre ore. Meno di due giri di pista. E’ ultima coltellata al mio orgoglio. Questa però la schivo: vedo il bicchiere mezzo pieno. Il personale è lì, lo faccio, basta non rallentare. Taglio il traguardo, 3h02’34’’, personal best. Lo taglio e quasi non me ne accorgo, chiedo ala ragazza che mi mette la medaglia al collo se la corsa sia finita. Lei sorride e annuisce. Rimango fermo in piedi come paralizzato per qualche secondo. Vedo Giulia, che ha raggiunto il suo obiettivo, vorrei farle i complimenti, ma in tutta sincerità parlo senza sapere bene cosa dico. Glieli faccio adesso: “Grande Giulia, sei stata bravissima!”

Faccio qualche passo, devo restituire il chip legato alle scarpe. Una signora seduta mi dice “Siamo un associazione di volontari per l’assistenza a portatori di handicap, se il chip lo regala a noi, i 5 euro di cauzione vanno in beneficenza”. “Volentieri signora, ma non riesco a piegarmi per slegarmi la scarpa” . “Eh nemmeno io posso piegarmi per aiutarla” dice lei ridendo. Guardo bene e solo allora mi rendo conto che la sua sedia è in realtà una sedia a rotelle. Mi sento un imbecille per non dire di peggio. Non trovo nemmeno le parole per chiedere scusa, ma non serve, Lei sorridendomi chiama una volontaria della Croce Rossa che mi slegherà le stringhe. Ci salutiamo stringendoci la mano.

Cammino lentamente fino al ritiro bagagli, bevendo l’acqua del sacchetto del ristoro e poi, tramite la navetta arrivo al parcheggio dove ho lasciato la macchina. Non ho un’emozione definita. Sono stanco, deluso e felice allo stesso tempo. Mi cambio rapidamente, si fa per dire, e mi metto alla guida. Chiamo a casa, pronuncio il mio tempo e mi metto a piangere. Non mi vergogno a scriverlo. Ho pianto. Speravo di stare sotto le 3 ore, non ci sono riuscito. Il personale e, soprattutto, la consapevolezza di aver dato tutto rimangono però la soddisfazione più grande di questa giornata. Ritenterò, finché avrò la fortuna di poter correre, ritenterò. Ancora, ancora e ancora.

La maratona è questo.

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