Cadere, a un passo dal sogno. Assaporare l’amaro gusto della delusione. Rialzarsi più volte e finalmente piangere di gioia. Un mare di retorica ci seppellirà, ma le imprese sono imprese e questa Olimpiade ce ne sta consegnando davvero tante. Non c’è nemmeno il tempo di riprendersi dal giorno più felice del mondo, di rendersi conto di cosa sia successo realmente, perché altre pagine di storia aspettano solo di essere scritte. E Vanessa Ferrari ha posto la sua firma indelebile, regalando alla ginnastica italiana una gioia attesa ben 93 anni. Un’eternità, una maledizione spezzata alla quarta partecipazione ai Giochi. La bambina prodigio ha portato a termine la sua missione dopo le cocenti delusioni del passato. Lei, come Tania Cagnotto, incarna alla perfezione la tanto abusata “resilienza”: testarda, orgogliosa, inarrestabile. Nemmeno gli infortuni (al pari di Gimbo Tamberi) e la positività al coronavirus l’hanno fermata: quindici anni dopo aver stupito il pianeta ai campionati mondiali di Aarhus, si toglie la più grande soddisfazione di una carriera infinita. “Con te partirò”, un viaggio tanto travagliato quanto meraviglioso, racchiuso in quel minuto e mezzo che sublima ogni cosa. Poi, come d’incanto, è finalmente leggera.
È un argento che ha il sapore dell’oro, come quello di Gregorio Paltrinieri negli 800 stile libero. È una medaglia che ci ricorda una volta di più quanto siano effimere e sterili le polemiche sulle poche vittorie azzurre in Giappone. A volte c’è più gloria nell’arrivare secondi o terzi, perché contano sempre il percorso, la fatica, i sacrifici. E non c’è vergogna in un bronzo, così come il quarto non è necessariamente un perdente. Dietro ogni piccola delusione, c’è sempre una storia. Una storia di sforzi triplicati, notti insonni, dubbi e paure. Sono donne e uomini, prima che atleti straordinari, e non dovremmo mai dimenticarcelo, quando andiamo a osservare le loro prestazioni con la lente d’ingrandimento, per scovare le minime imperfezioni. Sono loro i primi a essere delusi quando le cose vanno male. L’obiettivo è dare sempre il massimo, poi – ovviamente – provare a vincere.
Come se fosse facile, in mezzo al turbinio di emozioni che ti travolgono. A tal proposito, pensandoci bene, sembra un po’ forzata la narrazione dell’oro condiviso da Tamberi e Barshim. Non è stata una lezione di sport, né un gesto clamoroso, illogico o irrazionale. È stata una scelta perfettamente naturale, quasi scontata. Mai così semplice. Qualcuno sostiene che abbiano scelto la strada più facile, andando contro il fantomatico “spirito della competizione”. La realtà è che sono amici da tanto tempo, hanno attraversato entrambi momenti difficili a causa dello stesso infortunio: perché avrebbero dovuto sfidarsi in un ulteriore duello all’ultimo sangue, se il regolamento dà loro la possibilità di salire insieme su gradino più alto del podio? Chi avrebbe accettato di gettare alle ortiche un trionfo certo? Probabilmente neanche due acerrimi nemici, nemmeno l’atleta più sicuro di sé. Non c’è nulla di epico, se non in quell’abbraccio fraterno e liberatorio dopo aver preso la decisione più ovvia. Un’immagine che vale più di mille parole.