Non c’è due senza tre, si usa dire. E il Tour de France 2016 di Chris Froome rispetta pienamente il detto. Per la terza volta (seconda consecutiva) in quattro anni, il britannico nato in Kenya e residente in Sudafrica fa sua la corsa più importante del mondo. Un trionfo che lo affianca ai grandi del passato capaci anch’essi di conquistare tre edizioni della Grande Boucle: il belga Philippe Thys (vincitore nel 1913, nel 1914 e nel 1920), il francese Louison Bobet (1953, 1954, 1955) e, in tempi relativamente più recenti, lo statunitense Greg LeMond (1986, 1989, 1990). Un’impresa riuscita a ben pochi, dunque, ma che Froome avrà modo di migliorare ulteriormente nei prossimi anni, andando a caccia della quarta e della quinta maglia gialla, che – nella storia ultracentenaria del Tour de France – solo quattro uomini hanno saputo conquistare.
Un vero e proprio dominio quello instaurato sulla Grande Boucle dai sudditi di Sua Maestà – ma più precisamente dal Team Sky – a partire dal 2012, anno in cui a vincere un’edizione disegnata su misura per lui (giusto una settimana prima dei Giochi Olimpici di Londra) fu Bradley Wiggins. Proprio in quel 2012 Chris Froome – reduce dal sorprendente secondo posto della stagione precedente alla Vuelta – tornò alla Grande Boucle (dove aveva debuttato nel 2008) concludendo sul secondo gradino del podio, alle spalle del compagno di squadra. Froome, indiscutibilmente superiore a Wiggins laddove la strada saliva, non lo attaccò mai, pur non mancando di far notare la cosa attraverso gesti plateali non propriamente eleganti.
A chi gli chiedeva come mai accettasse di buon grado di lasciare la gloria al connazionale e compagno di squadra, Froome rispondeva che il suo tempo sarebbe arrivato. E non mentiva: il 2013 sarebbe stato per lui l’anno della sua consacrazione. L’esito dell’edizione numero Cento della Grande Boucle non fu mai veramente in discussione: fin dal primo arrivo in salita, sui Pirenei, Froome mise le cose in chiaro e conquistò una maglia gialla che non avrebbe più lasciato. Ma fu sul Mont Ventoux che il Kenyano bianco inflisse la lezione più severa ai rivali, schiantando Alberto Contador e gli altri contendenti alla vittoria finale. Il solo Nairo Quintana, scalatore emergente, riuscì quantomeno a tenergli testa, togliendosi addirittura la soddisfazione di staccarlo sulle ultime salite alpine, quando tuttavia Froome doveva semplicemente amministrare l’enorme vantaggio accumulato.
Se lo splendido Tour 2014 di Vincenzo Nibali rappresentò una fugace – ancorché estremamente luminosa – parentesi al dominio Sky, il canovaccio dell’edizione successiva avrebbe ricalcato fedelmente (o quasi) quello di due anni prima. Nel 2015 infatti, Froome schiantò i rivali sul primo arrivo in salita, conquistando immediatamente la maglia gialla e da lì correndo sostanzialmente in difesa. L’avversario più pericoloso fu ancora una volta Nairo Quintana, che tuttavia peccò di eccessivo attendismo e solamente nelle ultime due tappe di montagna si rese effettivamente conto che, tutto sommato, Froome non era così imbattibile come appariva. Un problema che quest’anno non si è neppure posto, dal momento che nessuno – proprio a cominciare dal colombiano della Movistar – è mai parso in grado di impensierire il Kenyano bianco.
Nessun avversario umano, quantomeno, dal momento che in almeno due occasioni, va detto, lo “strapotere” di Froome ha tentennato, benché mai a causa dei suoi rivali. La patetica – nella sua drammaticità – corsa a piedi della maglia gialla sulle rampe del Mont Ventoux (laddove tre anni prima aveva ottenuto la sua vittoria forse più spettacolare) è l’episodio per il quale questo Tour verrà probabilmente ricordato. Una pagina incresciosa nella gloriosa storia della Grande Boucle, non solo per la dinamica, ma anche per la discutibile scelta della giuria di porvi rimedio cancellando il distacco accumulato da Froome in quell’occasione. Il secondo momento difficile per Froome è storia di due giorni fa, nella tappa con arrivo a Saint Gervais Mont Blanc; la scivolata lungo la discesa bagnata, e la conseguente salita finale percorsa con una bicicletta non sua hanno messo a dura prova Chris Froome, che tuttavia ha saputo “salvarsi” egregiamente.
In un Tour de France nel quale gli uomini di classifica non si sono dati battaglia come mai in passato, proprio da Chris Froome sono arrivati i lampi più significativi. E su terreni laddove non lo si sarebbe aspettato, quasi a voler rispondere a quanti lo hanno sempre tacciato di scarsa inventiva e carente senso dello spettacolo (specie rispetto, per esempio, a campioni coevi quali Nibali e Contador). Se in occasione delle due precedenti vittorie la maglia gialla era arrivata con un’azione perentoria sul primo arrivo in salita pirenaico e anche quest’anno i Pirenei hanno costituito il teatro, stavolta è in discesa che Chris Froome ha colto di sorpresa i rivali conquistando la tappa e una maglia che non avrebbe più lasciato. Ed è sfruttando un ventaglio in una tappa pianeggiante che la maglia gialla ha portato un altro attacco ai rivali (più spettacolare che efficace, per la verità). Ancora una volta le cronometro si sono dimostrate a lui incredibilmente congeniali (vincendo la seconda ha portato a due il bottino di tappe conquistate in quest’edizione della Grande Boucle), mentre paradossalmente non abbiamo mai visto il miglior Froome in salita: se per “necessità” o per scelta, non lo sapremo mai.
Ma al di là degli episodi sfortunati, dei lampi comunque regalati e dell’assenza di avversari all’altezza, il terzo Tour de France vinto da Chris Froome porta – ancor più dei precedenti due – la firma della sua squadra. Quel Team Sky che dal 2012 (con la sola eccezione di cui si è detto a confermare la regola) impone sistematicamente la propria legge sulla corsa più importante del mondo, monopolizzandola e inibendo qualunque tentativo da parte di altre formazioni di cambiare le carte in tavola. L’assenza di avversari capaci di metterne in discussione la superiorità, infatti, va certamente ricondotta anche (seppur non solamente) alla forza della corazzata britannica, uno strapotere di squadra raramente espresso a questi livelli nella storia del ciclismo. Solo l’Astana vi ha provato, quest’anno, non sostenuta tuttavia da un leader all’altezza, avendo pagato Fabio Aru lo scotto di un debutto non semplice a quella che molti definiscono l’università del ciclismo; ma il talento e la grinta certamente non difettano al Cavaliere dei 4 Mori, che peraltro ha il futuro dalla sua.
Sorge spontaneo pensare a quale Tour de France avremmo assistito se Alberto Contador fosse stato effettivamente della partita (il fuoriclasse spagnolo si è ritirato nelle prime tappe a causa delle cadute), o se Vincenzo Nibali non fosse stato reduce dalle fatiche di un Giro d’Italia vinto in maniera rocambolesca e solamente in extremis. Se al meglio delle loro possibilità, avrebbero potuto i due corridori più vincenti degli ultimi quindici anni – specie in virtù della classe e dell’inventiva che da sempre li contraddistingue – rendere le cose quantomeno più difficili al Kenyano bianco e ai suoi formidabili scudieri, magari offrendo qualche emozione in più in un Tour de France certo non indimenticabile? Non sapremo mai neppure questo. L’unica certezza è che questa sera Chris Froome e il Team Sky festeggeranno un altro meritato trionfo in giallo. Estremamente arduo, al momento, pensare che sarà l’ultimo.