E allora mettetevi anche voi nei panni del veterano, scalzato dal giovane compagno di squadra. Il ciclismo è uno sport dove il campione, se vai più veloce di lui, ci pensa su due volte prima di dirti bravo. Nel 2004, Gilberto Simoni non volle accettare che la sua gamba non era più quella che lo aveva portato a dominare il Giro d’Italia l’anno prima. S’intestardì, allora, pensando che il gregario 22enne Damiano Cunego gli sarebbe stato accanto in ogni momento della corsa.
Ma il ragazzino non ce la faceva a restare al suo posto, le gambe che scalpitavano e che mulinavano i pedali come la lama di un frullatore. A pezzi minuscoli, i sogni degli altri. Bormio certificò quello che tutti gli appassionati avevano visto fino a quel momento. Damiano era più forte di tutti, Gilberto doveva alzare bandiera bianca.
A mente fredda, il campione di Palù di Giovo disse della nuova maglia rosa: “A Bormio mi ha tradito”, come se vincere fosse stata una colpa. Cadde dal pero, allora, un Cunego che si preparava a vivere l’ennesima stagione (la sfortunata annata 2005) con la stessa casacca rossa di quello che, a parole, non sembrava più un compagno. Sottolineò che non c’era mai stato alcun accordo e che quel giorno, a Bormio, tutti partivano con le stesse chance. Il veronese vinse la quarta tappa del suo Giro perfetto, in cui si impose da padrone. Mai più a quei livelli, Cunego, il più grande rammarico del ciclismo italiano degli ultimi anni.
Chissà quale duello, questa volta, caratterizzerà le ampie strade di Bormio, nella tappa – la numero 16 del Giro 100 – che vedrà scorrere sotto le ruote le pendenze del Mortirolo e dello Stelvio (Cima Coppi dell’edizione, con i suoi 2758 metri d’altitudine). Il primo verrà affrontato dal versante più facile, che pure, però, è quello originale: l’unico precedente, infatti, risale al 1990, anno in cui una delle salite simbolo entrò di prepotenza nella storia della Corsa rosa. Il secondo, invece, collocato a quasi 80 chilometri dall’arrivo è stato reso innocuo dalla lontananza con il traguardo.
Nulla impedisce, però, a qualche temerario di provare l’impresa. Come quando l’ultimo Fausto Coppi, quello del 1953 e del suo quinto e definitivo Giro d’Italia, si tolse lo sfizio di strappare la maglia al rivale Hugo Koblet, attaccando su una montagna che, fino a quell’edizione, era rimasta sconosciuta al grande pubblico delle due ruote. Ma questa è un’altra storia.