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Il vento non muoveva una foglia, il falchetto era sparito, solo una nuvoletta bianca che assomigliava un po’ a un gufo interrompeva la lastra azzurra del cielo solleticato dalle guglie delle Dolomiti. In molti gli avevano chiesto perché continuasse a preferire quelle montagne alle altre, quelle che affollavano le cartoline, che da tutto il mondo venivano a vedere.
In quel momento le parole, non gli uscivano. Non riusciva a capire cosa ci fosse di sbagliato in quella sua preferenza, non capiva perché si dovessero mettere in competizione le montagne.
Poi lo capì…
Tra i sentieri o sulle funivie, d’estate e d’inverno, gli occhi potevano ristorarsi in quel “tripudio di celeste magia” perché “esistono valli che non ho mai visto da nessun’altra parte, fatti di solitudine, dirupi mezzo nascosti da alberi e cespugli pencolanti sull’abisso dei laghi e delle cascate d’acqua…”.
Avrà pensato senza dubbio questo Alessandro Covi, quando, lungo le pendenze in doppia cifra del Passo Fedaia, alle pendici della Marmolada, è entrato nella leggenda del Giro d’Italia. Avrà pensato al modo più rapido per arrivare in cima ai 2057 metri della sede di tappa più alta dell’intera edizione, proprio mentre da dietro si è scatenata una bagarre assoluta per andare a riprenderlo.
Sul dirittone di Malga Ciapela, 1,5 km di rettilineo con pendenza costante oltre il 10%, Alessandro ogni tanto ha guardato in alto, e ha visto gli ultimi tornati lo avrebbero consegnato direttamente alla storia. Non si è mai guardato indietro dal momento in cui al traguardo mancavano 54 km e lui ha attaccato, sulle prime rampe della Cima Coppi della 105ª edizione, il Passo Pordoi.
Un’azione irrilevante è apparsa agli occhi dei suoi compagni d’avventura, i 14 che hanno animato la corsa sin dal mattino, ma per Alessandro no: lui pensava di poter arrivare al traguardo, e così è stato. Ottimo discesista, nella lunga picchiata che portava i corridori a Caprile, dove parte il Fedaia, Covi ha guadagnato un altro minuto ai suoi inseguitori, che hanno scollinato il Pordoi indietro di 1’30”.
2’30” all’imbocco della Marmolada sono un vantaggio tutt’altro che rassicurante però, dato che, negli ultimi 6 km di scalata, le pendenze non scendono mai sotto la doppia cifra. Un massacro per i corridori del gruppo, figuriamoci per chi è vento in faccia da solo da oltre 40 km. Ma Alessandro non demorde, e quando sembra non farcela, quando lo sloveno Domen Novak gli si rifà sotto, a soli 30″ a 2 km dal traguardo, Covi, che fino a quel momento ha giocato di conserva sull’ultima salita, torna a mulinare le gambe e fino al traguardo manterrà lo stesso distacco, implementandolo di 2″.
Un trionfo per lui, che ha iniziato a vincere solo quest’anno. Una tappa leggendaria che lo ha consacrato al grande pubblico. Cima Coppi e tappone dolomitico incamerate in un colpo solo. Apoteosi. Ha corso d’esperienza, pur avendo solo 23 anni, e chissà se oggi ha trovato il corridore da corse a tappe che cercava dopo l’annuncio del ritiro di Vincenzo Nibali e il prematuro ritiro di Fabio Aru.
Sul Fedaia però succede l’inverosimile anche dietro, tra i big della generale. Dopo una terza settimana corsa a marcarsi, Richard Carapaz, Jai Hindley e Mikel Landa scoprono le carte sull’ultima salita vera del Giro. Landa mette i suoi a lavorare sin dal mattino e manda un uomo in fuga, Hindley manda un uomo in avanscoperta e Carapaz, proprio quando inizia il tratto di Malga Ciapela, mette i suoi a fare il forcing che sin da subito miete le sue vittime tant’è che restano in 4: loro e uno Hugh Carthy sempre più in crescendo di condizione.
Questa tattica sembra avere i suoi frutti quando Hindley attacca seguito solo dalla maglia rosa, con Landa e Carthy che si staccano.
È qui però che riparte la nostra storia. Hindley ritrova Lennard Kamna, mandato in fuga al mattino e il tedesco imprime un ritmo così forte che in un attimo si sente un rimbombo fragoroso: “Carapaz si è staccato, Carapaz si è staccato”, si sente urlare per strada e in tv. Si sta ribaltando il Giro.
Hindley dà uno sguardo indietro e allora attacca, continua a scattare, conscio che ogni secondo può essere decisivo e Kamna si mette alle spalle di Carapaz, a marcarlo stretto, come Materazzi con Zidane nel 2006. Lo marca ma l’ecuadoriano non è brillante, tutt’altro. Non è mai stato così appesantito da quando è giunto per la prima volta al Giro nel 2018. È in punta di sella, con lo sguardo perso di chi sa di aver sprecato un’occasione colossale.
Jai guadagna metro su metro e Richard si affievolisce sempre di più, da dietro arrivano anche Landa e Carthy che lo riprendono e lo staccano, Kamna ogni tanto pedala davanti a lui, per togliergli ritmo. È finita. Richard non ne ha più e sul traguardo il cronometro è impietoso: 39″ da Landa e Carthy, ben 1’25” da Hindley, un massacro.
L’australiano è il nuovo padrone del Giro e ai microfoni a fine tappa dichiarerà: “È un sogno. È la maglia più bella di questo sport, spero di portarla in fondo, ho un conto aperto con il 2020”. Sì, perché Jai, nel 2020 è arrivato all’ultima tappa, per giunta una cronometro, in maglia rosa, e data la sua poca propensione nelle corse contro il tempo, la perse, neanche a farlo apposta, contro un uomo della INEOS-Grenadiers, in quel caso Tao Geoghegan-Hart.
Quella volta ci arrivò con lo stesso tempo alla cronometro finale, questa volta con un bottino di 1’25” da difendere, che, stando a ciò che dice, difficilmente perderà.
Siamo quindi arrivati quasi in fondo a questo nostro lungo viaggio partito il 6 maggio dall’Ungheria che si concluderà domani, con l’ultima frazione: una cronometro individuale di 17,4 km con partenza e arrivo a Verona. Non è roba per specialisti, infatti di 17,4 km, 4,1 saranno in salita al 5,4% per salire verso Torricella Massimiliana e altrettanti in discesa, per rientrare in città.
Jai ha dichiarato che ce la farà, Richard che lancerà il cuore oltre l’ostacolo, una cosa è certa, non ci annoieremo.
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