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L’emergenza legata all’incedere inarrestabile del coronavirus in tutto il mondo ha fatto piombare l’intero mondo dello sport nell’incubo: stop a praticamente tutti – o quasi – gli eventi più importanti, per il momento fino a inizio aprile, ma se la situazione non dovesse migliorare il blocco totale delle manifestazioni sportive potrebbe durare ulteriormente. L’ultima volta che l’inattesa piega degli eventi (per citare Brizzi e il suo splendido libro omonimo) era riuscita a far sì che l’intero mondo dello sport – un’industria da miliardi e miliardi di euro – si fermasse di colpo risale di fatto alla seconda guerra mondiale, quando per esempio persino i Mondiali di calcio vennero sospesi per ben dodici anni, e si passò dall’edizione 1938 vinta dall’Italia in Francia a quella del 1950 in cui l’Uruguay trionfò in Brasile nel celebre Maracanazo del 16 luglio. Almeno, questo è quello che ci racconta la Fifa e la storia ufficiale, perché ci sarebbe un’altra versione dei fatti, a metà tra leggenda e suggestione, che ci narra qualcosa di ben diverso.
IL PIU’ BELLO MAI GIOCATO – “I Mondiali del 1942 non figurano in nessun libro di storia, ma si giocarono nella Patagonia argentina”. Parola di Osvaldo Soriano, che scrisse così in uno dei suoi racconti (pubblicato in Italia nell’antologia Futbol), aprendo uno squarcio nel velo di Maya della storia ai tempi della WWII. Un Mondiale non ufficiale, il più bello mai giocato. Nel senso letterale del termine, visto che, carte alla mano, questo fantasmagorico torneo non si è mai disputato realmente, ma ci piace pensare che invece, nell’estremo sud dell’Argentina e del mondo, squadre improvvisate nel pieno della guerra abbiano provato a mettere da parte i pensieri negativi e si siano riscoperte organizzatrici e partecipanti di un evento che, con un po’ di sana sospensione dell’incredulità – ha dell’incredibile. E nel 2020, con il coronavirus come nemico decisamente più silenzioso e di scala globale, non possiamo nemmeno sfogare su un pallone tutte le nostre paure: non ci resta che leggere, restando a casa, di quel Mundial dimenticato di quasi ottant’anni fa.
MELTING POT – Mentre il ritmo del tempo in Europa era scandito da bombe e devastazioni, nel sud dell’Argentina, letteralmente agli antipodi, la situazione era relativamente tranquilla. In molti erano fuggiti dal Vecchio Continente per cercare di ricominciare e la Patagonia accolse spagnoli, polacchi, francesi, inglesi, portoghesi e, soprattutto, gli italiani. Il lavoro non mancava, c’era da costruire la diga di Barda del Medio, e ad aiutarli c’era la popolazione indigena degli indios Mapuches, ancora arretrata dal punto di vista delle conoscenze tecnologiche. Un idillio interrotto dall’arrivo dei tedeschi. Degli incaricati del Terzo Reich sbarcarono in Argentina per montare la prima linea telefonica al di là dell’Atlantico e si resero conto del melting pot culturale e sociale che si era venuto a creare da quelle parti. La prima idea, del tutto pacifica, per provare a convivere con i locali e gli emigrati fu quella di proporre un torneo di calcio.
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IL MONDIALE SI FA – La proposta piacque e arrivarono subito le prime adesioni. Non quella degli italiani, che tentennarono parecchio prima di prendere una decisione: impossibile stare al gioco dei tedeschi per via dell’antifascismo diffuso, ma dal lato sportivo c’erano da difendere i due titoli consecutivi del 1934 e 1938. Il Mundial, però, era ormai cosa fatta: le squadre si andavano organizzando, c’erano gli inglesi che potevano vantare una maggiore conoscenza delle dinamiche, gli spagnoli che facevano affidamento sullo spirito battagliero dei lavoratori e sull’affinità linguistica con gli argentini, che radunarono i migliori talenti a disposizione da tutta la regione. E poi, c’erano loro, gli indios Mapuches che non sapevano nemmeno cosa fosse il calcio, ma che miravano a ribaltare attraverso un pallone che rotola il rapporto di forza con i dominatori d’occidente.
L’ARBITRO CON LA PISTOLA – Era giunto il momento della decisione più difficile, quella dell’Italia: alla fine prevalse l’aspetto sportivo su quello ideologico e arrivò l’adesione dei due volte campioni in carica, decisi a battere i tedeschi quantomeno su un campo rettangolare. Rettangolare perché questa era una delle pochissime nozioni calcistiche in possesso dei partecipanti, che sconvolti dalla guerra che aveva fornito preoccupazioni ben più importanti, avevano completamente dimenticato le regole del gioco. Fu dunque necessario stabilirne alcune, decisamente semplici: non si poteva toccare la palla con le mani, non si potevano aggredire gli avversari, in particolar modo colpendoli mentre erano a terra. Ignote le dimensioni del campo, così come quelle delle porte, che vennero realizzate artigianalmente per una lunghezza record di dieci metri per due di altezza. Serviva l’arbitro, fu trovato: si trattava di William Brett Cassidy, figlio del famosissimo bandito Butch Cassidy, uno dei fuorilegge più noto e temuto del West. Niente cartellini, al direttore di gara di eccezione bastava la pistola per tenere a bada i ventidue in campo. William Cassidy portò con sé Casemiro, figura ombrosa ma chiamata per via della sua proverbiale vista: le porte non avevano reti, per questo motivo serviva qualcuno che avesse il compito di comunicare se la palla aveva varcato o meno le linee dei tre campi da gioco costruiti tagliando con l’accetta metri e metri di sterpaglie.
I GIRONI E GLI INCIDENTI – Insomma, è tutto pronto per l’inizio dei Mondiali 1942. Non ufficiali, è vero, ma i partecipanti, di fatto tutti letteralmente presi dalla strada, erano in fermento. Per la composizione dei gironi ci si affida all’infallibile metodo della pesca dei legnetti in base alla lunghezza. Nove partecipanti, tre gironi da tre: gruppo A con Italia, Paraguay e Polonia, gruppo B con Germania, Francia e Argentina, gruppo C con Spagna, Inghilterra e gli indios Mapuches. Come prevedibile, la presenza di un arbitro figlio di uno dei più noti criminali di tutti i tempi e armato di pistola non scoraggiò alcuni dei partecipanti, abituati a girare con un coltellino nei calzoncini e desiderosi di farsi giustizia da soli in campo. Non mancarono incidenti e accoltellamenti, e così anche Casemiro ebbe in dotazione una pistola e non si preoccupò di utilizzarla sparando alla cieca contro un attaccante degli indios Mapuches, che ancora ignaro delle regole di questo gioco, nascose il pallone sotto la divisa da gioco scorrazzando per il campo.
L’ALTRA ITALIA-GERMANIA – Passando ai risultati, però, ci furono diverse sorprese. Proprio gli indios Mapuches, in teoria la squadra materasso dell’intero torneo, sorpresero tutti vincendo sia contro Spagna che Inghilterra e dunque superando il turno, come l’Italia e la Germania, vincitrici degli altri due gironi. Si decise che Italia e Germania avrebbero disputato uno spareggio, di fatto una finale anticipata, con la vincente che avrebbe poi affrontato i Mapuches per alzare al cielo il trofeo. La voglia di vedere di fronte gli italiani antifascisti e i tedeschi era tantissima e anche in questo caso c’era da aspettarsi tensione e irregolarità fin da prima del calcio d’inizio. I calciatori della Germania portarono con sé oggetti metallici piccoli ma appuntiti da usare di nascosto, gli azzurri bruciarono uno stemma fascista. Al momento del sorteggio, effettuato da Cassidy con una moneta, quest’ultima sparì ed entrambe le contendenti si accusarono a vicenda. A fatica si iniziò e l’Italia conduceva per 3-2 fino al momento disgraziato in cui il direttore di gara, che non aveva certo dimenticato di essere vissuto a bottega del più grande fuorilegge degli ultimi anni dell’800, fu richiamato da un misterioso individuo sugli spalti.
INCREDIBILE EPILOGO – Gli veniva riconsegnato il dollaro usato per il sorteggio e in allegato c’era un altro bel gruzzoletto. Fu subito chiaro a William Cassidy che quella partita andava truccata: mentre si era allontanato, i tedeschi avevano ferito il calciatore più forte dell’Italia, l’anarchico Mancini, ma l’arbitro non prese le sue difese, puntandogli piuttosto la pistola alla fronte e invitandolo a lasciare il terreno di gioco. La decisione successiva fu scioccante: tre rigori concessi in un sol colpo alla Germania, che andò a segno dal dischetto ribaltando così il punteggio. Dopo la realizzazione del terzo penalty, Cassidy sparò un colpo di pistola che indicava la fine immediata del match e l’Italia perse incredibilmente l’opportunità di difendere i due titoli ufficiali. La finale sarebbe stata dunque quella tra i tedeschi del Terzo Reich e gli indios Mapuches.
NEL FANGO – Dopo tre giorni andò in scena la finalissima. Improvvisamente cominciò a piovere a dirotto e il campo si riempì di fango, ma Cassidy, dopo aver consultato il fido Casemiro e i giocatori, decise che si poteva giocare, anche perché nel frattempo i tedeschi avevano fatto sapere ai connazionali in patria di aver già vinto il Mundial di Patagonia. Il match iniziò in modo regolare, ma questo aggettivo non si può certo associare a quanto accadde successivamente. I calciatori divennero immediatamente irriconoscibili per via del pantano, e pian piano le porte si allontanarono sempre di più finendo per scomparire, stessa fine fece anche il pallone. Il figlio di Butch avrebbe a quel punto voluto sospendere tutto, ma i Mapuches correvano per tutto il campo probabilmente spinti da qualcosa di irrazionale e magico, mentre i tedeschi furono gelati da una telefonata: era il Fuhrer in persona, che chiedeva di portare a casa la coppa. Ricomparve una porta e dall’alto della collina che si ergeva sopra lo stadio della finale delle donne vestite in modo variopinto ballavano. Una di queste fece cadere il pallone giù in campo e un Mapuches lo appoggiò in rete per il vantaggio di quelli che si possono tranquillamente definire come i padroni di casa, che nel caos generale vinsero dunque la partita, prima che il fango spazzasse via improvvisamente tutto, giocatori, spettatori e campo da gioco. Una strage.
VERO COME LA FINZIONE – Una storia bellissima, se solo fosse vera. A raccontarla è stato per primo Osvaldo Soriano, poi ai suoi scritti si sono ispirati Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, che hanno realizzato qualche anno fa uno splendido film girato con lo stile del falso documentario dal titolo Il Mundial dimenticato – La vera storia dei Mondiali di Patagonia 1942. Partendo dal ritrovamento dei resti di Guillermo Sandrini, un reporter che nella finzione narrativa del film era al seguito di questo torneo leggendario, e della sua telecamera con ancora al suo interno i filmati originali dell’epoca, i due sceneggiatori e registi hanno dato vita a un piccolo gioiellino che, una volta terminata la visione, suscita, tra le tante, una particolare reazione nel fruitore: quella di credere davvero, a tutti i costi, che i Mondiali di Patagonia 1942 non siano una mera invenzione, ma qualcosa di più di una semplice fantasticheria.
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