Si chiudono tre anni che non possono cancellare quello splendido quinquennio in cui sono arrivati cinque scudetti, quattro Coppa Italia, due Supercoppe, in cui la Juventus ha battuto record su record e con lei lo stesso Massimiliano Allegri., ma la parola fine arriva nel modo più burrascoso. Tre anni nel complesso anonimi e negativi, anche se appena due giorni fa è arrivato un trofeo, offuscato però dai comportamenti sopra le righe e oltre il limite della decenza tenuti dal mister livornese proprio dopo aver vinto la finale con l’Atalanta. Lo show con gli arbitri, il set dei fotografi distrutto, il diverbio – poi ricomposto – con il direttore di Tuttosport, e forse la goccia che ha fatto traboccare il vaso, i rapporti inaspriti con Giuntoli e la dirigenza e alcune scenate sul campo a favore di tv che non sono di sicuro piaciute al club. Tutto questo rende triste l’epilogo di Allegri: a due giornate dalla fine del campionato, e nella stessa data – venerdì 19 maggio – di cinque anni fa, arriva la pietra tombale sulla sua esperienza durata di fatto dieci anni (con due anni sabbatici in mezzo) con la Vecchia Signora.
Un addio amaro, senza il saluto dei tifosi, da emarginato e senza alcun rispetto per i 12 titoli che Allegri ha vinto su questa panchina: Max se l’è cercata e ha rovinato in modo irreparabile un triennio negativo, con un colpo di coda finale, ma in ogni caso sotto le aspettative. Pur con alcune attenuanti, nel suo mandato-bis ha dimostrato di non essere esattamente al passo coi tempi, di avere probabilmente bisogno di giocatori fatti e finiti, e soprattutto che nella stragrande maggioranza dei casi le minestre riscaldate non sono poi così buone. Stavolta, è risultata persino indigesta e l’esonero finale è una ciliegina sulla torta, ma al contrario.
La vittoria in finale di Coppa Italia contro l’Atalanta è stata la chiusura di un cerchio: l’ultimo trofeo per Max risaliva ormai al 2019, l’ultimo per i bianconeri al 2021, proprio all’Olimpico nella coppa nazionale e proprio contro la Dea, ma in panchina c’era Andrea Pirlo, mandato via dopo due trofei e una fortunosa qualificazione Champions. Dopo tre anni, Allegri ha centrato sul campo il pass per la coppa più importante, senza troppi patemi d’animo in fin dei conti, poi la scorsa stagione è andata come andata, più nei tribunali che sui campi di Serie A, e va riconosciuta al mister livornese la capacità di aver tenuto la barra dritta nei momenti di maggior burrasca. Va bene la psicologia, va bene la juventinità, ma questo club da sempre veicola un messaggio ben chiaro: vincere non è importante, è l’unica cosa che conta. E si può chiudere un occhio se tutte le altre componenti funzionano a meraviglia.
L’addio doveva esserci a prescindere: non una scelta dettata dalla semplice voglia di provare qualcosa di diverso, come avvenne cinque anni fa con l’avvicendamento in favore di Sarri, ma una scelta ponderata che si basava in un primo momento su rendimento e risultati, quelli che l’Allegri primo in quei cinque anni non aveva mai fatto mancare, al di là di un gioco non esaltante. Con tutte le attenuanti del caso, l’Allegri-bis è stato un fallimento sportivo e l’ingaggio stellare pesa nella valutazione: un trofeo, pochi sorrisi, l’addio più inaspettato e burrascoso possibile. Bologna-Juventus doveva essere la partita del passaggio di consegne, Juventus-Monza quella dei saluti: niente di tutto ciò, Allegri lascia nel modo peggiore, cacciato in malo modo dal club al quale ha dato tanto.