Il cooling break dell’Olimpico è stato liquidato come una banale coincidenza, la trasgressione sulla gerarchia dei rigori a Firenze è invece un segnale d’allarme che nessuno ha sottovalutato. La tradizione vuole che servano tre indizi per fare una prova, ma un terzo episodio di questo tipo rischierebbe di essere fatale a Paulo Fonseca. È la dura legge del calcio: è sempre l’allenatore a pagare, anche se c’è un’insubordinazione. Al momento il tecnico del Milan ha incassato la fiducia della società, ma la sua gestione è sotto la lente d’ingrandimento sul tema del rapporto con lo spogliatoio. A Roma contro la Lazio aveva negato l’esistenza di un problema dopo quella pausa sospetta con Rafa Leao e Theo Hernandez rimasti in disparte. Nel post partita di Fiorentina-Milan, invece, Fonseca ha puntato il dito sui giocatori, non per un errore tecnico o per una condizione non brillante, ma per aver disubbidito alle sue indicazioni. Lui aveva indicato Pulisic come rigorista designato, ma sul dischetto si sono presentati prima Theo Hernandez e poi Abraham. Entrambi ipnotizzati da De Gea. Lecito a questo punto chiedersi se il tecnico portoghese abbia in mano la squadra. Ma il passato dimostra che la personalità a Fonseca non manca. A Roma tolse a capitan Alessandro Florenzi lo status di titolare inamovibile (e l’esterno lasciò per questo i giallorossi) ed ebbe qualche discussione con l’altro proprietario della fascia, Edin Dzeko. “Dico solo che Edin per la mia Roma era come Ronaldo oggi per il Portogallo, non era un campione semplice da gestire”, dirà in seguito.
Al Milan i campioni difficili da gestire non mancano, ma Fonseca sta scegliendo la via più difficile. La storia è piena di discussioni sul dischetto (Fiorentina inclusa, visto che domenica dagli undici metri è andato Kean e non Gudmundsson). Quando la scelta del tiratore avviene sul momento decisivo, però, tanti colleghi glissano sostenendo che la decisione di campo del calciatore che va dagli undici metri sia più importante della gerarchia definita in allenamento. Dagli undici metri invece Fonseca ha messo spalle al muro i calciatori, rischiando anche di fornire un’immagine di chi non ha in mano lo spogliatoio. Un all-in in un momento difficile. E anche le scelte sui capitani sono tutt’altro che banali. Possono essere condivise o meno, ma con Roma e Milan – dove la fascia più di altri posti è considerata sacra per ovvi motivi – Fonseca ha sempre dimostrato di avere il carisma per le decisioni difficili: “Quando sono arrivato qua, il capitano veniva scelto tra i giocatori con più partite nel club. Io rispetto questo principio, ma voglio una ‘leaderanza’ condivisa, allargata. Vogliamo condividere questa responsabilità con più giocatori. In questo momento ce ne sono cinque che possono essere capitani, ma è un numero che vorrei veder aumentare”, ha detto. A Roma c’era Florenzi, sostenuto in un primo momento dagli ultras con uno striscione ma sgridato da Kolarov (le telecamere lo pizzicarono mentre lo rimproverava: ‘Chiamatelo, con chi c**** sta parlando?’). Poi Dzeko, con cui ci furono i già citati dissapori (che portarono la fascia sul braccio di Pellegrini). I segnali di instabilità nel rapporto con lo spogliatoio sono il filo che lega le due avventure italiane di Paulo Fonseca. Ora c’è una sosta dall’aria pesante per riflettere su errori e prossime mosse. La personalità però non manca. Almeno questo concedetelo ad un uomo che ha allenato (vincendo) per tre stagioni uno Shakhtar in esilio nell’Ucraina ferita dalla guerra nel Donbass.