La rabbia al triplice fischio dice tutto della settimana vissuta dal Napoli, che per un anno intero si era abituato ai sorrisi a centosei denti, e che invece in sette giorni ha mandato giù la sconfitta col Milan, brutta nella forma e nella sostanza, e ha guardato dal divano la Coppa Italia da cui è fuori per mano della Cremonese. Proteste nei confronti dell’arbitro che ha fischiato la fine, esaurito il recupero, mentre gli azzurri puntavano la porta lasciata sguarnita da Falcone, salito per il disperato ultimo assalto di un buon Lecce che finalmente ritrova il gol, ma perde per la sesta volta di fila, anche se per il momento non c’è ancora allarme salvezza. Proteste che si spiegano, dal punto di vista della psicologia spicciola applicabile al pallone, alla volontà di vincere con un punteggio più rotondo, per non sentirsi dire quello che in fin dei conti è la realtà dei fatti: una vittoria sporca, arrivata soffrendo, e fin qui non ci sarebbe nulla di male, le grandi squadre, quelle vere, sanno soffrire, ma decisa da un autogol che ha regalato – letteralmente – i tre punti ai partenopei.
Fattuale quanto riduttivo, perchè il Napoli torna quello dominante, che fraseggia, la sblocca subito, con la suspence del Var in agguato, lo fa con l’uomo simbolo, capitan Di Lorenzo. Poi però subisce una squadra dinamica e coraggiosa come quella salentina, che quando affonda – non lo fa spesso – sa come fare male, e che pesca il jolly con Di Francesco dopo un’azione insistita. La forza di questo Napoli è saper reagire subito, senza scomporsi, senza isterie. Nello scivolone col Milan, di fatto, non c’è stato nemmeno tempo e modo di reagire, stasera si è trovato l’episodio fortunato, il disastro Gallo-Falcone, e sono arrivati i tre punti che avvicinano ulteriormente la festa scudetto. Con la coda rabbiosa, perché in vista del Milan in Champions si voleva ridurre a zero le critiche e gli appunti. E con l’infortunio di Simeone che, con Osimhen ancora in dubbio, può pesare. Ma se ne hai vinte 24, le chiacchiere stanno a zero, e martedì non conterà la storia o la psicologia, ma quello che Kvaratskhelia e compagni sapranno fare sul campo.