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L’unico spettacolo peggiore dell’assenza di pubblico negli stadi è stato il goffo e pittoresco tentativo di porvi rimedio. Alla fine ci è riuscita una pandemia a svuotare gli stadi. Non il caro prezzi, non la mobilità che in città come Roma complica non poco i piani dei tifosi, non il carattere fatiscente di gran parte degli impianti italiani. La pandemia peggiore del dopoguerra. E nel silenzio degli stadi, il calcio si è accorto di non poter esistere senza pubblico. “Paghiamo l’assenza dei nostri tifosi“, ha detto persino Simone Inzaghi al termine di quello che è stato un coro unanime: giocare senza tifosi è un’altra cosa. Meno pressione, vero. E qualche squadra può averne beneficiato. Ma triste, decadente, come se il teatro dei burattini del Gianicolo fosse svuotato dei bambini, suo naturale pubblico. Un calcio mai visto, nemmeno in tempi di guerra. Quando la Roma vinse lo Scudetto nel 1942, i campioni d’Italia raccontarono di pochi festeggiamenti in città a causa del conflitto: “Ma allo stadio festeggiammo, eccome“. Nel calcio la pandemia è arrivata dove nemmeno la guerra ha osato spingersi. Ma la Serie A (e il calcio in generale) non ha saputo interpretare il momento. Con l’opzione dei cori registrati in televisione, è riuscita a mettere a tacere il rumore del silenzio. Con le orribili coreografie virtuali, ha censurato la potenza del vuoto. Come se le immagini di Campo de’ Fiori vuota in tempi di lockdown fossero ricoperte da tanti puntini virtuali. Con le figurine dei tifosi cartonati, ha simulato in modo imbarazzante la presenza umana. Un calcio che ha paura dei vuoti. Perfino il cerchio del centrocampo è stato coperto dai volti virtuali di Paolo Rossi e Maradona: l’immagine doveva essere emozionante, ne è risultata un pastrocchio di roba. Less is more.
Lo stadio vuoto è un’immagine potente, storica, rumorosa. L’immagine televisiva ‘riempita’ ha svuotato la vita di quell’immagine, ha regalato ai libri di storia un ritratto distorto. E intanto c’è la corsa al titolo. Di Maio ritiene una “bellissima idea” intitolare lo stadio Olimpico a Paolo Rossi. E poco importa che all’Olimpico la Nazionale ci ha perso sei volte (3 al San Paolo, 0 a San Siro) e che intitolarlo all’icona nazionale per eccellenza non è proprio l’idea più giusta. Proprio quell’Olimpico che da più di 60 anni si sobbarca due squadre. “Roma ha sido, y sera siempre, la ciudad de los estadios“, titolava una monografia spagnola del 1939 sull’architettura capitolina. Oggi in Europa le altre città con un solo stadio per due club di massima serie sono Bruges, Skopje, Gerusalemme, Haifa, Katowice e Charkiv. Oltre a Milano e appunto Roma. La linea da seguire adottata dalla Giunta Sala sul tema nuovo stadio per Milan e Inter sembra essere la melina. Il progetto dello stadio di Tor di Valle è rimasto talmente impantanato nei dubbi di una classe politica incapace di fare una mossa avanti, che la proprietà della Roma è cambiata. E si narra che a Friedkin l’impianto di Meis piaccia perlomeno un po’ meno di quanto piaceva a Pallotta. Si è parlato persino di Flaminio che giace nell’immobilismo più totale, nel silenzio e nel degrado di arbusti ed erbacce. E quelle, proprio no, non puoi coprirle nemmeno coi pixel.
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