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Il momento d’oro con l’Atalanta e l’autobiografia in procinto di uscire. Robin Gosens è uno dei protagonisti del nostro calcio ma il cammino è stato lungo e tortuoso. Con una lettera su Gameplan, Robin Gosens ha raccontato la sua vita e la propria carriera: “Ora sono un calciatore professionista, ma all’inizio ho fatto fatica ad inserirmi. Non avevo quel senso di appartenenza. Durante l’allenamento, i miei compagni di squadra sorrisero per la mia scarsa tecnica e la mancanza di coordinazione. Certo, fuori dal campo ero ben integrato, ma sul campo di gioco ho sempre avuto la sensazione che gli altri pensassero che fossi molto peggio di loro, perché non ero mai stato in un’accademia giovanile e mi mancavano le basi per giocare a calcio correttamente. Potrebbe sembrare un cliché, ma se chiedeste ai miei compagni di squadra – passati e presenti – chi è sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene, la maggior parte di loro risponderebbe ‘Robin Gosens‘. Sapevo che avrei potuto affrontare i miei deficit solo se avessi lavorato di più. Ogni giorno chiedevo a uno degli allenatori se potevo aggiungere più esercizi di tecnica, fitness o coordinazione al termine dell’allenamento. Solo così ho potuto svilupparmi ulteriormente e guadagnarmi il rispetto dei miei compagni di squadra”.
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E sulla prima stagione con la maglia dell’Atalanta: ”Il mio primo anno a Bergamo è stato pieno di delusioni e insicurezza. Ero arrivato in un nuovo paese, non parlavo la lingua e non c’era nessuno ad aiutarmi. Per la squadra non ero importante, l’allenatore non aveva fiducia in me e, a volte, ha fatto capire che le mie capacità non fossero degne di un posto all’Atalanta. Non ricordo quante volte mi sono seduto nella mia stanza di notte chiedendomi se avessi rovinato tutta la mia carriera con questa mossa. Non ho giocato. Per la squadra ero invisibile e, al di fuori del calcio, non avevo una famiglia che mi distraesse. È rimasto così per la maggior parte della stagione. Faceva male quello che l’allenatore mi diceva, ma sapevo che avevo la qualità per giocare in serie A. Ho provato a fare le cose che l’allenatore mi chiedeva, ho continuato a fare sessioni di allenamento extra, ho imparato dai miei rivali e mi sono adattato lentamente ma inesorabilmente al livello richiesto. Sapevo che un giorno il duro lavoro sarebbe stato ripagato. Ho iniziato ad avere più tempo di gioco, mi sono trovato meglio nella squadra e sono diventato sempre più importante per loro, mese dopo mese e stagione dopo stagione. Adesso – dopo quattro anni qui a Bergamo – sono diventato un elemento centrale della squadra, ho giocato in Champions League e sono entrato a far parte della nazionale tedesca”.
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